Beata solitudo, sola beatitudo installazioni 2002 – 2005, testo critico di Valerio Dehò

Beata solitudo, sola beatitudo

installazioni 2002 – 2005
di Valerio Dehò

Fausta Squatriti entra nelle ferite del Mondo e degli uomini per rappresentarne la vulnerabilità e la certezza della precarietà. La sua non è solo la constatazione di una realtà che non rivela mai il suo proprio essere se non nell’oblio della superficie, ma anche la ricerca di un livello esistenziale perduto, ma ancora tracciabile. Se negli anni 90 la sua ricerca si era portata verso il mondo della natura e del rapporto distruttivo con l’uomo, con un’indagine sulla morte che non ha paragoni nell’arte contemporanea, recentemente ha indagato i luoghi abbandonati, quelle dimenticanze della società che esistono e aspettano un’altra occasione di vita.
Precedentemente era la biologia, quindi la scienza, che mostrava circostanze terribili di degrado, cioè di morte innaturale. L’artista portava la sua attenta osservazione su di un piano di denuncia, ma sempre anteponendo le ragioni dell’arte. Accanto alle fotografie di piante o animali o teschi fortemente angoscianti, poneva poi uno sviluppo grafico pittorico che n’era una sorta di continuazione e sviluppo, ma possedeva anche la forte autonomia che l’astrazione impone. Un confronto tra l’arte e la natura? Forse, ma non solo.
Fausta Squatriti avendo una continuità di pensiero artistico di dipendenza astratto-costruttivista, ha sempre cercato dei legami intimi, e “matematici” tra le cose. Non si tratta di un’operazione di traduzione pura e semplice, probabilmente impossibile, ma di una riformulazione in un altro linguaggio affine, secondo la scelta dell’artista. Anzi si tratta probabilmente di creare una vicinanza-distanza tra la forma pura e una deviazione rispetto alla naturalità originaria, quasi un metodo alla Wittgenstein, basato sulle “somiglianze di famiglia”. Questo lavoro, che prelude a quello attuale, aveva anche uno sviluppo tridimensionale in quanto una figura solida si sviluppava da quella piana e creava un dialogo all’interno dell’opera stessa di cui faceva parte. L’intelligenza di questa scultura-quadro-fotografia consisteva anche nel creare un sistema d’attese reciproche tra le varie componenti. Lo spettatore ha in questo modo una forma di coinvolgimento totale e non passiva. Tra la fotografia, il disegno, e il solido tridimensionale si determinava e si determina un gioco di relazioni complesso, in cui simboli e significati si amplificano e non determinano alcuna univocità interpretativa.
Quello che però è chiaro è un senso generale. La Squatriti ha un’adesione alla realtà che la porta ad interessarsi degli aspetti meno eclatanti, però sostanziali, veri. Se le sue opere hanno anche un versante estremamente duro e per taluni shockante, questo accade non per una scelta di catturare l’attenzione, quanto piuttosto di verità. E la sua non è una poetica di rinuncia e di pessimismo, quanto piuttosto di sensibilità. Andare a fondo nella realtà può voler dire anche fare delle scoperte spiacevoli e inquietanti.
Il lavoro attuale dedicato ai luoghi abbandonati, o apparentemente abbandonati come le poste di Palermo o le cave di tufo di Favignana o un albergo-casinò in stile eclettico in Brianza, sviluppa, non solo dal punto di vista tecnico, il discorso precedente, ma sposta il discorso sull’architettura e quindi nello spazio umano della rappresentazione simbolica. L’uomo gioca spesso a nascondersi dietro i propri errori. In questo caso vi sono delle analogie formali molto forti, ma anche un livello di simbolizzazione più specifico e meno “religioso” rispetto al ciclo sulla morte degli inizi degli anni 90. I luoghi abbandonati sono, apparentemente, di tutti, perché sono frequentabili e deserti, però sono una sorta d’opposizione ai non-luoghi tanto celebrati negli ultimi anni nelle arti visive. Se quest’ultimi sono luoghi vuoti anche se pieni di persone che li attraversano, gli altri sono pieni di ricordi e di memorie, anche se sono privi di persone che li abitano. Se i non-luoghi sono momentanei contenitori d’emozioni e di tracce di vita, i luoghi abbandonati hanno storie da raccontare, racchiudono vite sospese e non spese nei rituali di una società di massa in cui l’individuo ha cessato di esistere.
E’ una dimensione in cui entrano alcune tematiche dell’artista come la solitudine, che viene vista come un privilegio per poter meglio osservare e vivere con lo sguardo un mondo di presenze e di forme. Inoltre sembra anche che all’interno di questa dimensione, si situi la bellezza. Questa appare proprio nelle dimenticanze della società, nei suo spazi vuoti, nei blank di un testo che comunque scrivono sempre gli altri. La solitudine equivale alla bellezza come ricerca e condizione-cognizione d’alterità, ma anche di sofferenza, come sappiamo dalla letteratura di Gadda.
Quindi l’artista osserva, ma non solo, perché la sua non è una posizione passiva. L’artista fa e quindi reintroduce la sua visione del mondo nel mondo stesso. Questo è un legame indissolubile, perché la solitudine non è estraniarsi, negarsi al mondo, quanto piuttosto una forma difficile e personale di partecipazione.
E questi lavori recenti hanno anche sviluppato una ricerca formale nuova in cui l’opera è tripartita come fosse a forma di libro. L’introduzione anche di una manualità esplicita nel colore, dà un senso più caldo di partecipazione e di traccia personale. Accenni di sfumatura sviluppano un senso più esplicitamente pittorico. Le geometrie restano, ma ridotte ad un’idea meno estrema e razionale. Perché se è vero che la razionalità della Squatriti resta come caratteristica di tutta la sua opera, nella recente serie dei luoghi abbandonati vi è una pietas più esplicita e calda.
Anche la sua ricerca formale gioca attorno alla forma del dittico o del trittico, accenna una semplicità sacrale che è assolutamente coerente con le immagini base, le fotografie, ma sviluppa in parallelo una forte autonomia. In tal modo anche alcuni simboli che ricorrono, tra il laico e il religioso, s’integrano in una visione che nel contrappunto figurativo – astratto possiede un punctum deciso e dichiarativo. Se i rapporti tra le componenti restano, si ha maggiormente un senso di continuità e di fusione. Come se bellezza e solitudine si legassero intimamente in un’opera saldata in unità non solo di poetica, ma anche di forma. E questo è essenziale per legare l’arte alla vita. Non a caso il colore formalizzato è quasi l’ombra della fotografia, ne sembra partorito. Le stesse sculture finiscono per acquisire materia, si avvicinano sempre di più ai cromatismi e alla luminosità delle componenti bidimensionali.
Si avverte quindi nello sviluppo del lavoro di Fausta Squatriti una componente più sentimentale e intima, che non rinuncia alla durezza dello sguardo, ma che si avvicina ad un ideale di bellezza che è distanza e solitudine, ma anche commossa partecipazione alla contemplazione attiva del mondo.

Valerio Dehò