che fare se è guerra il pensiero della guerra?

saggio di gaetano delli santi
(italiano per straniati, fabio d’ambrosio editore, 2004)

La scrittura lapidaria
Il comune sentimento dell’accettazione passiva e rassegnata, viene (nei versi di Colusso) scabrosamente e provocatoriamente leso.
L’infamia di un’epoca terribilmente infangata dalle sue guerre chirurgiche, devastata da una crudele intelligenza capitalistica, alloppiata dalla mercificazione narcisistica dei suoi effetti scenici, sigillata nel furor histrionum di simulacri ingannevoli e menzogneri, vi è messa alla berlina. L’evidenza del dato di fatto non è negata, anzi lo si esplora per umiliarlo, annichilirlo, fiaccargli le corna, mortificarlo..

L’attacco verbale, nella poesia di Tiziana Colusso, non calca perciò modelli linguistici collaudati neppure quando le parole appaiono visivamente, sulla pagina, come scolpite da un lapicída.
Non è un caso che in Italiano per straniati (così pure, in particolar modo, in Epidemos/ Interferenze, voci/Tsumami, onda anomala) l’istituzionalizzazione di una scrittura visiva, organizzata per un effetto lapidario, non è disgiunta dal contenuto semantico testuale.
Con la scrittura lapidaria, Tiziana Colusso celebra e restituisce alla pagina, come le gesta tramandateci dalle iscrizioni augustee incise su lapidi in caratteri onciali, le odierne efferatezze sociali. La scrittura lapidaria suona, in queste pagine, come un monumento alla stupidità umana. È su queste pagine ridotte a lapidi che i versi, con perizia e accuratezza, annotano, catalogano, immatricolano, secondo la cadenza di una partitura musicalmente degenerata a registro e inventario, gli orrori dell’esistenza.

La lapide, semanticamente, porta già la morte in sé, è conformisticamente stigmatizzata da un sentore cimiteriale. Tramite l’organizzazione lapidaria dei versi, Colusso ci rende visibile il tanfo di carogna che, una certa società capitalistica, emana dai suoi prodotti dominanti: «il troppo visto,/i déjà vu,/le ombre scambiate per sostanze,/lo spamming quotidiano…».

Anche la propria quotidianità ammorbata e incarognita, Colusso l’affigge pubblicamente, in forma di lapide, su parole che portano in sé l’incubazione di un morbo infettivo che crea marasma e sconcerto. Infatti, l’effetto lapide ci rimanda all’horror mortis anche quando il linguaggio, chiamato in causa per un’autocritica, si fa ironicamente sarcastico: «Ho la lingua bruciata dalle vanità:/epidemie parasemantiche/mi si attaccano al palato/esalandosi dall’inchiostro quotidiano,/(…) ed infinite bolle e afte/mi porto a casa alla fine del giorno/mi dolgono/mi colgono in fallo di difese immunitarie/mi si ingorgano/extracomunitarie/alla soglia del dire.
La lapide, in quanto abitante di un mondo morto a se stesso, non è che la visibilità marmorea della morte. Sulla lapide il morto si racconta o viene raccontato. Il linguaggio lapidario, diventa così, nella poetica di Tiziana Colusso, allusione al corpo incarognito di un mondo corrotto e nauseabondo, che si autocondanna o viene condannato. Ed è per necessità allegorica che le parole scorrono su una superficie concettualmente marmorea: una superficie liscia e lucida vi diventa specchiante, e in quel riverbero e su quella liscezza, le parole vi scorrono così come sono, divenendo più visibili anche a se stesse.

Cosicché nelle parole di Tiziana Colusso, palpabilmente esplicite e indubbie, non v’è censura né autocensura, tutto viene detto, registrato, condannato. Sebbene le malattie del nostro secolo siano digià di pubblico dominio, esse, nella maniera con cui sono elencate sulla pagina, ridiventano pubbliche perché rese ancora più visibili, ancora più manifeste. Si entra così nel regno dell’oscenità del «troppo visto».

La parola oscena per una lingua di cicala
Che cosa è la lingua masticata, deglutita e vomitata dai mass media se non l’oscenità di una ipercomunicazione che impone l’incapacità di affermare un senso, sia pure quello del gioco aprospettico e aleatorio del nonsense?
«Osceno è tutto ciò che mette fine a qualsiasi sguardo, a qualsiasi immagine, a qualsiasi rappresentazione».1 Che cosa è, dunque, la parola oscena? La parola oscena è ciò che moltiplica il suo potere di inutilità e di passiva interscambiabilità. La parola oscena non ha la corposità nascosta e clandestina di un senso deviante: non travía l’ipocrisia del buon senso, non s’infuria contro la massa amorfa dei linguaggi, non esce dalla retta via di un’informazione ingannevole. La parola oscena non è espressa da un linguaggio incondizionato; non stupisce, con un senso segreto, la consecutio temporum del discorso; non affronta la piatta formalità del linguaggio di scambio con una strategia linguistica che adotti la devianza dalla norma. La parola oscena si trascina sulla superficie del troppo visto e del troppo consumato, e non si pone nessuna modalità di contraddizione del reale.
La parola oscena è (secondo Colusso) «lingua patria & matrigna»; lingua matrigna perché non arricchisce più lo spessore dell’uomo per cui essa fu madre: la lingua madre ha tradito il proprio figlio con un linguaggio così tanto fumabile, soffiato e leggero da rendersi servizievole, infído, vigliacco e inconsistente, non più audace e intrepido. «Questo perché – afferma lucidamente Mario Lunetta – in effetti l’italiano più diffuso e pervasivo, quello sconciato della tv, è ormai una sottolingua stupidamente spudorata, tutta emotiva e modaiola, piccologergale e paramafiosa: non più dialetto selvaggio o impasto pieno di furor di rivincita sociale, ma solo microkoiné per sguatteri e buffoni».2

La poesia di Tiziana Colusso è, di conseguenza, ciò che mette in scena, contraddicendola, l’oscenità della parola oscena. Non esiste altro da sé nella parola oscena, poiché essa rimanda al significato solo di se stessa. In essa non si compènetrano alterità, finestre che s’aprono su differenti paesaggi, intrecci di significanti complementari, non riunifica in sé le differenze, i contrari, le opposizioni. La parola oscena è l’essenza incapsulata dell’io, è sempre e solo ciò che è: l’infaticabile immobilità dell’io. Parola a colloquio solo con se stessa: la parola di una voce appiattita in «salsa sulfuria d’emozioni/chimicamente istabile/inabile alla lotta quotidiana».

La parola oscena «Non è più – per dirla con Jean Baudrillar – l’oscenità di ciò che è nascosto, rimosso, oscuro, è quella del visibile, del troppo visibile, del più visibile del visibile, è l’oscenità di ciò che non ha più segreto, di ciò che è interamente solubile nell’informazione e nella comunicazione».3
Tra le parole ossimoriche «libertà d’espressione in salsa di tortura» non si nasconde altro significato al di fuori di ciò che significa: l’ipocrisia in vista. Da una parte si liberalizza ogni cosa secondo l’organizzazione capillare di una società che produce tutto e tutto rimanda ai propri scopi, dall’altra parte, in una società liberalizzata, ecco esistere ancora la subliminale produttività non solo delle torture, ma anche degli eccidi e degli stermini. Altro non significano le parole «onda cannibale/onda letale/che si nutre (…) di crociere aziendali, di cocottes e paillettes, di signore per bene, di balene,/di stive a doppiofondo per le armi dell’impero del male,/di petrolio disperso dal commercio globale» se non l’evidenza di ciò che effettivamente mostrano: la condizione commerciale del cannibalismo ipocrita di un mondo che si nutre dei propri cadaveri uccisi.

Le parole, nei versi di Colusso, né dissimulano né sublimano il proprio senso: prese così come sono dagli avvenimenti del mondo, partecipano alla messa a punto di un estetismo basato sulla loro autentica identità. I versi di Tiziana Colusso si servono di parole oscene, chiare e limpide, perché, identiche a ciò che intendono dire, in esse vi si specchia, contemplandosi, l’oscenità di ciò che non ha più segreto.
«Lingua di cicala» ci dice Tiziana Colusso, volendo dire: lingua smaniosa di cicalare a vanvera, che tutto invade e tutto degrada alla propria morte stagionale, proprio come le cicale che, in limbi di vanezza e di vuotità, hanno cicalato invano sino allo stordimento e alla morte. «Lingua morta» appunto, che affonda le proprie ragioni di essere, vanamente, in un linguaggio destinato a neutralizzarsi nello stagno collettivo di una artificialità demenziale e menzognera. «Lingua spezzata», iper-superficie della simulazione destinata a cadere su se stessa in frantumi. Lingua, insomma, che è conditio sine qua non di una società inconfondibilmente vissuta dai relitti e dagli anonimati.

In questo gorgo di bagliori senza senso, di linguaggi in rovina, di parole sfocate e insensate, di parole che non dicono più nulla se non se stesse, seppellite nelle menzogne degli spot pubblicitari, scorticate vive dalle funeste ambizioni di scellerate politiche, inchiodate all’imbroglio, all’effimero, indissolubilmente incatenate a un vuoto esistenziale che si dibatte nel vaniloquio dei propri rantoli, possibile (per dirla con Colusso) che non vi sia «Nemmeno una parola per essere salvata»?

L’iperbato frattale
Uno sguardo attento su Tsunami-onda anomala, ci rivela immediatamente la struttura retorica su cui il testo poetico è stato costruito. La sequenza frattale, secondo cui il ritmo dei versi si propaga, ci proietta l’energia passionale dell’iperbato: «Trattasi di un ordine di parole o di pensieri sconvolto nella sua successione, e costituisce, per così dire, il segno più autentico di una violenta passione».4 Micro eventi (ogni parola porta in sé, incautamente, nel bene e nel male, anzi più nel male che nel bene, il patrimonio sociale da cui proviene: gergalità massmediale, linguaggio medico, frasario biblico, idioletti appartenenti a specifiche realtà sociali metropolitane, ecc.) orientano la linearità discorsiva su una inestricabile mescidazione di parole che trasgrediscono la struttura del discorso.
Nel leggere i testi di Tiziana Colusso, la sensazione che ne ricaviamo, è quella di sentirci invasi da «significati che si annodano a gomitolo/significati replicanti che si annidano nei gangli vitali/della comunicazione hi-tech…». Il ritmo dei versi si pone in maniera contestativa, e, in particolar modo nell’Epidemos, pare che scorra sotto l’occhio di una cinepresa che ruota a 360 gradi.
La tecnica adottata è cinematografica. I versi si susseguono come fotogrammi che mirano a restituirci una realtà costituita da tanti… tantissimi eventi, ognuno dei quali trascina con sé la propria sostanziale raccapricciante fisionomia. Gli eventi si perdono nel tumulto delle immagini, le immagini si dibattono su un palcoscenito in cui ogni particolare, chiamato in causa per recitare la propria parte, mostra la facies hippocratica con cui ha assunto le smorfie inquietanti di una società ripugnante finanche a se stessa. Da questo tedio quotidiano, inchiodato alla cloaca ardente di tutto ciò che lotta per rendersi visibile, visibile a ogni costo, deriva «lingua tumorale di segni sintomatici che proliferano a cloni, a grappolo, a rete». Difronte a tanta oscenità, non mancano momenti in cui la parola dispera: impossibile per essa allontanarsi dall’ideologia di «una cancrena» che «divora invisibile gli organi vitali del pianeta».
Il linguaggio di Tiziana Colusso è quindi, come il mondo capitalistico (e del «postmoderno postmortem» «senza sapore e odore»), onnivoro: mangia tutto ciò che la nostra efferata società dei consumi sforna a ritmo vertiginoso.

La sequenza frattale dei versi, tramite cui le parole sembrano rincorrersi e franare l’una su l’altra, tenuta insieme da consonanze sonore («brava onda zero baraonda») sapientemente combinate per accelerare il ritmo e l’effetto di avanzamento consequenziale di un’onda anomala che spumeggia, s’infrange e inonda («onda sonora che si propaga senza sponda»), non fa che richiamarci l’antica sapienza retorica di Pseudo-Longino: «per mezzo degli iperbati l’imitazione vien ricondotta all’operato della natura».5
Tsunami ci rimanda, insomma, con estrema evidenza, all’interpretazione allegorica di un’atmosfera naturale. Tiziana Colusso allegorizza l’onda con un discorso consapevolmente disforme, scrupolosamente pluralizzato, perché sa: «chi nella realtà è in preda all’ira, alla paura, allo sdegno, (…) trascinato rapidamente di qua e di là in balìa completa dell’agitazione come spinto da instabile vento, inverte svariatamente e in mille modi l’ordine della naturale concatenazione del discorso.»6

Contro la parola degradata al rango di didascalia
Vi sono al mondo parole che non sfidano più nulla, del tutto inefficaci a difendere il proprio senso critico, a diffondere pensiero, a condensare di senso la propria gestualità sonora. Tiziana Colusso sintetizza con acume tutta l’mpotenza di questa parola d’oggi: «parola degradata al rango di didascalia». Parola che per comodità, o per quieto vivere, non significa né questo né quello, ma che potrebbe essere, a seconda dei casi, sia questo che quello. Parola qualunquista, in perfetta simbiosi con chi decide di non stare né qua né là, ma ovunque vi sia il qua e il là. Parola opportunistica che evade dal vissuto di se stessa pur di apparire occasionale, superficiale, disinteressata a tutto, tant’è che «poco importa se si distingue a malapena tra una denuncia di Amnesty in diretta e la morte da vendere in cassetta ai pedofili via e-mail».

E non è certamente con rassegnazione, limitata all’estetica di un proprio orgoglio ferito, che Tiziana Colusso dichiara, con tono provocatoriamente malinconico: «…la mia è una posizione impopolare, perché il pubblico ha diritto di vedere, come a poker: vedere, non capire, che è tutta un’altra cosa…». Già, la sua è una posizione impopolare perché sa che vedere è capire, vedere è vivisezionare criticamente con le parole anche ogni esteriorità che gli occhi offrono ai propri sguardi. Per Tiziana Colusso l’esistente è il mondo, allora scrivere è vedere con parole che possano capire, pensare è capire con parole che possano vedere: vedere il mondo e capirlo, in tutta la sua artificialità esteriorizzata dalla sua perfida seduzione, senza lasciarsi sedurre.

Contro il poeta che si dedica al vizio umbilicale
Tiziana Colusso, insomma, non è per l’estetismo inespressivo e disinteressato del «poeta» che «si dedica al/vizio solitario: umbelicale, cicatriziale, interstiziale,» che «si canta addosso» ed è «troppo vicino alle sue croste per far proposte», non parteggia neppure per il riso allegro della parola inebetita, perlopiù assassinata da una frivola visione ottimistica dell’esistente. No! il verbum di Tiziana Colusso non partecipa al piagnisteo delle sillabazioni mute per viltà-omertà, e non è voce generata dall’autoreferenzialità, ma è onda impietosa di un fiume rabbioso, che tanto ha visto (come tutti coloro che hanno voluto vedere) ciò che avrebbe preferito non vedere: e, dal momento che ha visto, denuncia.
E che piacere! nel constatare (dalla sua stessa voce aneddotica) che Colusso è sempre stata «gonfia di rabbia» sin da quando il demone verbum, che in lei covava, già vi metteva i denti fuori, quando le illusioni non le bastavano più, per contraddire le suggestioni vanificanti di un incivile decorativismo esistenziale: «la mia voce si accoppia alla maestà del fiume/ribollente, indomita, gonfia di rabbia e di zampilli e gorghi,/nell’assordante abbraccio del fiume/mescolo/alla sua furia la mia onda/come già facevo da bambina vicino alle cascate/offrendo alle acque una voce altrimenti compressa/edulcorata dall’educazione,/e questo barbaro rito mi protegge ancora dai veleni/di sempre nuove epidemie che fiaccano la città…».

Ma che fare se è guerra il pensiero della guerra?
La poesia di Tiziana Colusso radicalizza, in Italiano per straniati, con un linguaggio esemplare, tutto ciò che non si può fare a meno di criticare profondamente: l’apparire generalizzato della nostra epoca, nonché l’inutilità e la morte di un corpo sociale degradato a reclamizzare narcisisticamente se stesso.

Nel marasma soffocante di parole effimere, mercificate, esibizioniste, calcolate per essere consumate all’istante, anonimamente, ben venga una voce mossa dalla volontà di scuoterci dalla criminale ostinazione di tenerci attaccati a occhi che non vedono e a orecchie che non sentono, dall’osceno totemismo di chi pensa per sé pensa per tre. Ben venga la voce di Tiziana Colusso ad azzannare il nostro ottundimento, per farci capire (anche a costo di utilizzare un linguaggio da spot pubblicitario o da slogan) che «è guerra il pensiero della guerra»: si fa guerra anche solo nel pensarla, anche solo nel nominarla.

Nei versi di Colusso tutto fa naufragio, tutto precipita in una fine senza fine. La stupidità collettiva umana, non fa che enfatizzare la propria stupidità, esasperando la brutale indifferenza della propria indifferenza.
Se anche le guerre ridotte a mercimonio da avanspettacolo, non sono che lo specchio in cui la grassa società capitalistica si vede orgogliosamente arricchita, ecco che «il cosmo di nuovo è una discarica/di apocalissi e stonature:/di nuovo in principio era il verbo, e il verbo nuoce…».
Ma, se il verbo dell’irrimediabile perversità umana nuoce, perché non cercarne un altro? perché non lanciarsi nella profondità del vuoto che il dharma promette? perché non parlare dell’«Inascoltato/minuetto di grilli/in fondo al buio»? Tiziana Colusso farà anche questo.
Ma che fare quando «ancora per lo sdegno non si trova/una lingua plausibile per un mondo possibile»? che dire quando sì è già detto inutilmente: «Voglio dire l’orrore di quelli che sbirciano gli orrori e le lordure zoomando a tutto video efferati dettagli di torture»?
Dire! Continuare a dire, ci dice Colusso. Dire, incendiando la lingua con un altro linguaggio, resistere sperimentando altri indiscreti linguaggi per poter dire che v’è ancora molto da dire, che v’è molto da vedere, che v’è molto ancora di cui vergognarsi d’essere ciò che siamo.
E allora ecco: «mi esercito al silenzio/alla lingua dei pesci». Spoglia la parola (ci dice tra le righe Colusso) dalle autorevolezze dei boia che la impreziosiscono di crimini, l’allontana dalla superficie illusoria e ingannevole di uno specchio in cui il mondo contempla appagato l’ebbrezza vertiginosa che gli proviene dalle proprie malefatte, sveste la parola, la spoglia, non vuole sedurla né sedurre, non vuole che le parli dal tessuto opaco e plumbeo dei suoi incubi, la vuole scarna, spolpata, vuole in essa discendere senza il peso della sua carne, senza il grasso peso del mondo. Sì, «chiudo le orecchie a Vyasa,/rinnego il poema del mondo.//Inspiro, espiro.»
Sperimenta il linguaggio crudo, senza orpelli, dell’haiku. Ma non cessa Tiziana Colusso di urlare neanche quando scrive con parole distaccate e silenziose dell’haiku: «Occhi feriti/dal neon ospedaliero/tempo fatale».
Svuotando gli occhi da ogni fangoso sguardo, cerca di vedere solo ciò che va visto. Senza il risucchio caotico delle immagini che le impediscono di vedere ciò ch’è da vedere, svuota il vuoto che le viene dal soffocante gesto omicida del mondo, e scopre: non vale la pena d’uccidere né d’uccidersi, poiché… alla fin fine… anche «La carne cieca/moritura materia/riveste il Budda».

APPENDICE
Tanti sono i richiami letterari ai quali Tsunami ci riconduce. Invitiamo il lettore a lasciarsi trascinare, come noi, dalla costruzione ritmica, sonora, linguistica di Tsunami, per rivivere:
il movimento onomatopeico che, nell’Onda dannunziana, si riversa su un coacervo di allitterazioni, rime e parole che in perfetta assonanza si rincorrono, emanando suggestioni non solo sonore, ma anche visive;
la drammaticità sarcastica sermocinante che si polarizza sulla tragicità dell’esistente umano, allegorizzata da Lautreamont in un sermone all’oceano. Il grasso mondo contraddittorio in cui tutte le inibizioni della truculenta idiozia umana si disinibiscono, che in Tsunami esplode in una grande, immensa abbuffata di «marea nera che monta in black wave, black hole,/negra possente e guerrigliera che ti affattura, ti cattura e infine ti tritura/tutta manna diventa questa pattumiera», ci riconduce al sarcasmo surrealista di Lautreamont: «L’uomo mangia sostanze nutrienti, e compie altri sforzi degni di miglior destinazione, per apparire grosso. Che si gonfi quanto vuole, questa adorabile rana. Stai tranquillo, mai ti uguaglierà in grossezza; così almeno suppongo. Ti saluto, vecchio oceano!»;7

l’atroce solitudine di chi, nell’Ode marittima di Pessoa, sta sul molo a osservare impotente «l’orgia oceanica» nella quale si dimena e affoga inghiottita «La carne squarciata, la carne aperta e sventrata..» da «dominatori, signori, imperatori, corsieri»8 appartenenti a tutte le civiltà che in diverse epoche si sono succedute, diviene in Tiziana Colusso realtà strorico-quotidiana che ben si dilata (allegoricamente) a stomaco oceanico «che si nutre di isole e navi, di pesci e di reti, di vulcani sopiti,/di orche assassine, di carrette del mare, di nàufraghi senza allegria…»;
il ritorno drammatico alla terra, dopo aver invano appagato l’ansia di varcare oceani alla ricerca di un mondo sovrumano e di un’innocenza perduta, che scorre nei versi di Arthur Rimbaud (Baeau Ivre), di S. T. Coleridge (Ballad of the ancient mariner), di Dylan Thomas (Ballad of the long-leggend bait) si trasforma, nell’onda anomala di Tiziana Colusso, sia nella reticenza di fronte alla speranza: non si spera più di vedere il mondo libero dalla contaminazione della propria follia esistenzial-omicida: «corpo d’acqua più denso, che si inarca, si tende, s’affonda/già pronto ad andare//IN ONDA//cresta dell’onda, fronte dell’onda, profilo d’onda/nell’orizzonte vuoto l’onda sonora si propaga senza sponde,/non c’è Scilla & Cariddi in mare aperto/rombo sordo di motore lanciato in pista, navigazione a vista/onda elastica che prova i muscoli allo spoperto.»; sia nell’utopia della catastrofe che presagisce la fine di un mondo prostituito e impazzito, spazzato via da una forza naturale «l’onda si strappa, si sfalda, si riforma, caparbia/e cresce, cresce ancora, s’accosta alla costa a 300km l’ora/i sismografi impazziti segnalano solo trenta minuti/per saltare, scappare, per fermarsi a pregare//onda anomala, onda d’urto onda di deriva/in un fiat già s’abbatte alla riva.»

Il finale di Tsunami, raggiunge il massimo grado d’ambiguità per mezzo del suo linguaggio polisemico: per quanto sia in esso possibile ravvisare nell’onda anomala la forza temibile di una natura che si ribella, a sua volta si trasforma ambiguamente nella trionfante valanga distruttrice di un mondo che annega nella sua folle corsa allo sterminio e allo sfacelo.
Per quanto tutti i versi qui si muovano slanciati nell’irreprensibilità di una parodia mordace e ironica, ci resta alla fin fine il crudo sapore di una beffa amara. Cosicché, «l’onda» che «si strappa, si sfalda, si riforma caparbia/e cresce, cresce ancora» ci lascia in bocca:
sia un certo retrogusto leonardesco (si veda di Leonardo La descrizione del Diluvio): «E le ruine d’alcuni monti sien discese nella profondità d’alcuna valle, e faccisi argine della ringorgata acqua del suo fiume, la quale argine già rotta, scorra con grandissime onde, delle quali le massime percotino e ruinino le mura delle città e ville di tal valle.»;9
sia l’amara constatazione che ci viene dal vedere «assomigliare l’andamento delle cose umane al fiotto e alla ritratta del mare, che noi più volgarmente chiamiamo flusso, riflusso; e va a corso di luna, secondo il quale, in due misurati punti del dì e della notte, l’acque vive, colà in alto mare, risentonsi, e muovono verso terra; e qui con lenta, e là con presta, e altrove con precipitosa corrente, massimamente l’Oceano, trabocca, spande e versa, e dove più, dove meno, rifondesi e allaga…»;10
sia la terrificante chiusa che conclude, del giovane Leopardi, Il Diluvio universale, (spoliazione totale dell’umana esistenza, meritata fine causata dalla condanna implacabile di un Dio Giustiziere): «…geme la terra,/Inorridisce il ciel, freme Natura,/La semispenta umanitade afflitta/È in alto orrore immersa, e il mondo intero/Del delitto compiange i tristi effetti».11

Tra i versi dell’onda anomala, ci si smarrisce in un mondo offensivo, in una umanizzazione di cose e robe umane che non ispirano più fiducia, in un lacerante gesto d’ucciso in balía delle proprie morti. Tutto viene drammatizzato e grottescamente ironizzzato, perché tutto è drammatico e grottesco: il Dio Giustiziere è -per Tiziana Colusso- l’esasperante spazzatura di un mondo che si riversa su se stesso come un’onda anomala, un’immagine a dir poco mostruosa: quando è il mondo stesso a uccidere se stesso, è segno che non v’è più posto neppure per un effimero simulacro della speranza.

Gaetano delli santi

NOTE
1) Jean Baudrillard, L’altro visto da sé, Edizioni costa & nolan, Genova, 1992.
2) Mario Lunetta, Tiziana Colusso: un elastico teso tra Beckett e Buddha.
3) Jean Baudrillard, Op. cit.
4) Pseudo-Longino, Del sublime, a cura di Francesco Donadi, BUR, Milano 1991.
5) Ibid.
6) Ibid.
7) Lautreamont, I Canti di Maldoror, Poesie e lettere, a cura di Nicola M. Buonarroti, Feltrinelli, Milano 1968.
8 ) Fernando Pessoa, Una sola moltitudine, vol. primo, a cura di Antonio Tabucchi, Adelphi, Milano 1987.
9) Leonardo da Vinci, Scritti letterari, a cura di Augusto Marinoni, BUR, Milano 1952),
10) Daniello Bartoli, L’uomo al punto, vol. primo, a cura di Adolfo Faggi, U.T.E.T. Torino 1930)
11) (Giacomo Leopardi, Poesie e prose, a cura di Rolando Damiani e Mario Andrea Rigoni, vol. primo, Arnoldo Mondadori Editori, Milano 1990).