Ho scelto questa canzone – “La donna cannone”, per certo una delle più belle e più amate dagli estimatori di De Gregori – per vari motivi.
In primo luogo essa evidenzia da un lato quell’uso “piano” e regolare della lingua che è tipico di De Gregori, dall’altro il suo utilizzare metafore e costrutti logico-sintattici inusitati e di estrema e programmatica difficoltà comprensiva.
Dice De Gregori: “Le canzoni che scrivo sono per loro natura ambigue, non si prestano a una lettura semplice… mi piace che una canzone possa essere letta in due modi, possa voler dire due cose insieme”.
E interrogato sul senso preciso di una sua canzone ha modo di dire che “Io non voglio fare un sezionamento delle mie canzoni… quando leggo ‘Paolo e Francesca’ non mi chiedo chi fosse Gianciotto, cosa c’entrasse in realtà, a che pagina del libro li ha trovati che si baciavano, se abbiano scopato o meno… E’ una curiosità per niente sana. E’ una curiosità puntuale, didascalica, a cui ci ha abituato una scuola fatta da maestre vecchie e impreparate. Non è così che va guardato né un quadro né una canzone né niente” (cfr. De Gregori 1980, p. 46 e l’intervista ad Anselmi, l’Unità, 20 ottobre 1996).
E si capisce perché De Gregori risponda così; se volessimo cercare il significato preciso della “Donna cannone” – facendo quel sezionamento che De Gregori, giustamente, come poeta, non vuole e non deve fare – questa sarebbe semplificando una sua parafrasi esplicativa: La donna cannone, piccolo mostro e piccolo artista, sceglie di morire per amore: crede di volare nell’azzurro del suo sogno d’amore, crede di poter divenire d’oro e d’argento, ma invece si incammina verso la morte, cioè verso un cielo nero nero e verso un enorme mistero, accompagnata in questo ultimo viaggio – un “ultimo treno” preso senza bisogno di passare da nessuna stazione – dal disprezzo e dall’indifferenza di tutti… eppure il suo sogno d’amore è più forte di tutto questo, più forte persino della morte: “e non avrò paura se non sarò bella come dici tu /… e senza ali e senza sete, e senza ali e senza rete (io e te, amore) voleremo via”.
Ma, se come dice De Gregori, questa parafrasi non spiega niente del magismo struggente e malinconico della sua canzone, del suo essere un sogno senza speranza eppure raccontato con straordinaria e poetica partecipazione – da notare ancora il gioco sapiente dei pronomi -, questa pedestre parafrasi critica ci può aiutare a capire che la tecnica artistica di De Gregori e la fascinazione poetica che ne è il risultato, nascono da questo suo modo particolare di raccontare. Un modo di raccontare che spezza – secondo la più tipica tecnica artistica otto-novecentesca – il consueto percorso logico-sintattico per una comunicazione che è sì più ellittica, ma molto più capace di coinvolgere e conquistare – agendo anche attraverso musica e voce – cuore e cervello.
In questo De Gregori è coerente con un grande aforisma di Roberto Roversi che dice che la canzone “arriva veloce al cuore e a alla mente dell’uomo” (cfr. l’Unità, 30 sett. 1992). Ed è anche coerente con un’altra sua importante affermazione: “Non sopporto chi dice che la canzone è poesia. A volte ti puoi sbarazzare di uno dandogli del poeta. Un conto è dirgli che è comunque un narratore, un altro è pretendere che i suoi versi conservino un senso anche se avulsi dalla musica” (De Gregori 1995 in Cantautori Italiani n°7).
Un’altra canzone, “Rimmel” (del 1975 e tratta dall’LP omonimo, il primo grande successo di De Gregori) può rendere ulteriormente esplicito quanto ora sostenuto: De Gregori qui sta raccontando, se di racconto si può parlare, un addio d’amore: “E qualcosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure / e cancello il tuo nome dalla mia facciata / e confondo i miei alibi e le tue ragioni… chi mi ha fatto le carte / mi ha chiamato vincente / ma uno zingaro è un trucco… (Hai) ancora i tuoi quattro assi / bada bene di un colore solo / li puoi nascondere o giocare come vuoi / o farli restare buoni amici /come noi… come quando fuori pioveva e tu mi domandavi / se per caso avevo ancora / quella foto in cui tu sorridevi e non guardavi /… e quando io senza capire ho detto sì / hai detto è tutto quello che hai di me / è tutto quello che ho di te”.
Abbondano metafore (“ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo”), giustapposizioni (De Gregori evita cioè nessi logici espliciti: la storia non è narrata per esteso, non ha un inizio e una fine, non ci sono le consuete parole, magari in rima, cuore… amore), giochi linguistici (“come quando fuori pioveva” richiama “cuori quadri fiori picche”, ma il tema del gioco e del destino corre tutta la canzone: “chi mi ha fatto le carte mi ha chiamato vincente / ma uno zingaro è un trucco…” e un trucco, un gioco crudele è anche la domanda finale: “come quando tu… mi domandavi / se per caso avevo ancora / quella foto… hai detto è tutto quello che hai di me”). Pure il senso complessivo, l’emozione che le parole a un tempo nascondono ed esplicitano, giunge chiarissimo.
Possiamo dunque intuire perché De Gregori, autore di una bella canzone dal titolo “Niente da capire”, volesse intitolare una sua raccolta antologica Niente da spiegare… basterebbe la pazienza di ascoltare!
In realtà quello che è stato a lungo chiamato, in maniera assolutamente incongrua, l’ermetismo di De Gregori – che caratterizzerebbe secondo alcuni critici in particolare i suoi primi album – è il suo aver fatto proprie tecniche e metodologie tipiche di tutto lo sviluppo poetico internazionale da Baudelaire in avanti… Dunque più geniale di tanti critici il fan che a un concerto su uno striscione definiva De Gregori “il principe delle sinestesie” (per un’analisi approfondita si veda lo splendido “De Gregori e la poesia” di Beppe Bovio – in Lo Cascio 1990 – il primo studio serio ed analitico delle connessioni culturali di un cantautore con la cosiddetta cultura alta).
Se questa canzone, e molte altre simili, possono essere considerate estremamente significative della produzione “lirico-letteraria” di De Gregori, un altro tratto caratteristico della sua poetica è la sua estrema politicizzazione.
Questa caratteristica si spiega, oltre che con l’esplicito riferimento etico-musicale al folk-singer americano Bob Dylan (da De Gregori – come vedremo – amato, tradotto, a volte persino quasi “copiato” e mai dimenticato) anche con il periodo in cui vive De Gregori. Francesco infatti, che ha 17 anni nel 1968, vive in prima persona non solo tutto il periodo degli anni di piombo e della grande illusione rivoluzionaria degli anni Settanta, ma anche quello successivo degli anni Ottanta e Novanta, caratterizzati in Italia dalla caduta di ogni senso di responsabilità morale e da un sempre più forte imbarbarimento civile.
E’ alla luce di questo che De Gregori in Canzoni d’amore – questo il sarcastico titolo di un LP del 1993 – definisce Roma “una cagna coi suoi maiali” e non teme di affermare – nel disco precedente dove l’attenzione al presente è manifestta fin dal titolo Miramare 19.4.89 – in bilico tra lo sdegno e l’ironia, che: “legalizzare la mafia sarà la regola del duemila / sarà il carisma di Mastro Lindo a regolare la fila… Bambini venite parvulos / c’è un applauso da fare al bau bau / si avvicina sorridendo l’arrotino con know-how / venuto a vendere perline e a regalare crack” (da “Bambini venite parvulos”).
Emblema di tutto questo Bettino Craxi: se le sue responsabilità saranno tanto gravi da portare l’ex presidente del Consiglio a un cumulo di ben 25 anni di galera, non meno forte la sentenza di De Gregori; da notare solo che, ed è questo che conta, le parole di De Gregori sono precedenti alla condanna penale di Craxi e anzi contemporanee all’apogeo del potere craxiano: “E’ solo il capobanda ma sembra un faraone / ha gli occhi dello schiavo e lo sguardo del padrone / si atteggia a Mitterand ma è peggio di Nerone” (da “La ballata dell’uomo ragno”).
Se ciò vale per il passato, analogo discorso possiamo fare per il presente; ci chiede infatti provocatoriamente De Gregori: “Stai dalla parte di chi ruba nei supermercati / o di chi li ha costruiti rubando?” e se si pensa a chi è il proprietario della Standa – nonché ex presidente del consiglio – non è difficile capire a chi probabilmente alluda De Gregori e da che parte lui stia.
La spiegazione di una così forte capacità di leggere e interpretare il proprio tempo nasce da una concezione della storia in cui si incontrano le menti più alte e più poeticamente impegnate del comunismo mondiale, da Gramsci a Brecht a Pasolini: “La storia siamo noi… attenzione nessuno si senta escluso… la storia non si ferma davanti ad un portone… la storia dà torto e dà ragione… la storia siamo noi, siamo noi padri e figli / siamo noi, bella ciao, che partiamo / la storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano / la storia siamo noi… questo piatto di grano” (da “La storia” del 1985).
Dunque non stupisce che un gramsciano “pessimismo della ragione” e un altrettanto forte “ottimismo della volontà” siano i tratti che caratterizzano tutta l’opera di De Gregori: nonostante tutto – dice De Gregori- “continuo a pensare che l’ottimismo sia un dovere” (cfr. Anselmi, l’Unità, 14 ottobre 1992).
A fianco dei due filoni poetici – che con semplificazione brutale possiamo chiamare lirico-letterario ed etico-storico-politico – è facile poi scorgere un terzo in cui i primi due si combinano, tanto da fare di questo alternarsi e mischiarsi di fantastico e reale il tratto caratteristico, e in definitiva dominante, dell’intera poetica di De Gregori.
Significativo in questo senso ricordare una canzone tratta dal disco Titanic del 1982, una trasparente metafora di una società che corre verso la catastrofe confidando ciecamente nel progresso scientifico e materiale. Qui si dice che “la prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento” e, se si racconta della “ragazza di prima classe innamorata del suo cappello che va in America per sposarsi”, si parla anche di un fuochista emigrante che dice alla madre: “Ma mamma a me mi rubano la vita / quando mi mettono a faticare / per pochi dollari nelle caldaie / sotto il livello del mare / in questa nera nera nave che mi dicono / non può affondare…”.
La presenza di Giovanna Marini in questo disco – un’artista che è “tante cose” (musicista, cantante, musicologa, vedette internazionale, ecc.) ma per certo anche la più grande folk-singer italiana – ci permette di tornare a parlare con più precisione non solo della formazione di De Gregori – avvenuta nei primi anni Settanta al “Folk Studio” di Roma – ma del suo modo di concepire testo, musica e interpretazione.
Se infatti Giovanna Marini afferma: “io sono arrivata al folk italiano attraverso il folk americano”, dice a sua volta De Gregori: “Io non sono un musicista. Nasco dalla struttura dei testi, da una idea di canzone popolare di Giovanna Marini e Caterina Bueno prima, subito dopo dei Gufi, e finalmente di Fabrizio De Andrè. Quindi la mia non è un’idea di rinnovamento musicale, ma di evoluzione secondo i miei ritmi e l’età. Tutto qui. (…) Dylan non ho mai smesso d’amarlo… Ho scoperto Dylan nei primi anni Sessanta, a 18 anni… Una versione di ‘Blowin in the wind’… Rimasi di sasso e certo che mi ha influenzato” (Marini in Lo Cascio 1990; De Gregori in la Repubblica, 4 febb. 1993 e C.d.S. 11 agosto 1997).
Alla luce di questo non stupisce che siano state proprio le sue traduzioni di Dylan – quasi in assoluto i suoi primi lavori artistici – il suo biglietto di presentazione per conoscere De Andrè e per collaborare al suo L. P. Volume ottavo del 1974 che ospita, oltre a traduzioni di Dylan firmate da entrambi gli artisti, anche alcune belle canzoni frutto anch’esse di questa collaborazione e di questo interesse estetico comune.
Rileggendo ancora sotto quest’aspetto la carriera di De Gregori non meraviglia neppure che Gino Castaldo definisca “Mira Mare 19.4.89” – un recente e fondamentale LP di De Gregori – un “disco folk, rigorosamente ispirato a Bob Dylan, che ha insegnato a tutti a cantare dicendo cose, a pungere la realtà tra ironici veleni e sogni metafisici… piegando in qualche modo la musica alla necessità dell’esposizione veloce, diretta, al racconto per immagini… E’ musica… da cantastorie che raccolgono quello che vedono e lo raccontano agli altri” (Castaldo in la Repubblica, 19 aprile 1989).
Segno ulteriore di questo ininterrotto amore non solo il fatto che si sia aggiunta in questi giorni una sua ancora inedita e splendida traduzione-interpretazione di “Il you see her say hello” di Dylan, per ora cantata solo in concerto, ma anche che proprio nella dimensione dei recenti concerti si sia ulteriormente accentuata questa sua propensione a una ballad rock di scuola dylaniana.
Dunque si può affermare – senza nulla togliere all’originalità di De Gregori, perché le influenze non spiegano mai gli esiti artistici ed estetici – che Dylan è una presenza costante sia sul piano della sua ricerca musicale che più in generale interpretativa. E’ da notare infatti che nel corso del tempo De Gregori ha affiancato alla sua splendida creatività d’autore di canzoni (De Gregori ama definirsi un songwriter), quella di autentico cantante e interprete di se stesso: “Non ho mai suonato così bene come adesso, non ho mai cantato con tanta gioia di cantare. Forse per questo fino a ieri – dice nel 1997 alludendo ai tra dischi live del 1990 – non avevo fatto dischi dal vivo… Non è stato sempre così con i concerti, s’impara cantando. Per un lungo periodo ha avuto paura… Adesso passo da una serata all’altra con grande semplicità e mi diverto” (interviste a la Repubblica del 4 febb. 1993 e 19 apr. 1997).
Ed è vero infatti che le sue continue entusiasmanti tournée di questi anni e i suoi album dal vivo, riepilogativi entrambi di tutta la sua precedente attività, sono stati un modo straordinario per portare a De Gregori – già molto amato dai giovani degli anni Settanta – un consenso fortissimo da parte delle migliori e più attente nuove generazioni italiane, segno questo di una carriera voluta tutta all’insegna di un grande rigore non solo artistico ma più in generale etico-politico.