dichiarazione di poetica

di Mario Lunetta

La scrittura che chiamiamo poetica gode di un’estensione illimitata, o meglio: storicamente limitata. Ed è, prima di tutto, un modo specifico di documentazione sociale: dello stato dei rapporti tra individui e classi in una società data di un’epoca data, e tra individui e individui, tra l’individuo poeta e se stesso. Nulla sfugge alla forma dell’epoca e alla dimensione socio-politica del quadro in cui il poeta opera, essendone al contempo operato. Così, tanto più forti saranno la riconoscibilità e la pregnanza dei suoi testi quanto più vi sarà incarnata la penetrazione dialettica del suo rapporto con detto quadro, e insieme la consapevolezza autocritica del suo esserci e del suo produrre all’interno di esso.

Il massimo dello scatenamento visionario e il massimo della freddezza concettuale. Oggi, dopo l’infinita storia delle maniere e dei manierismi poetici occidentali, una poesia degna del nome (e del suo stesso senso e ragione) non può che funzionare secondo un’inclinazione “concettuale”, proprio nel senso che si è dato negli anni Sessanta del secolo scorso a certe esperienze in ambito di arti visive. E ancora: una poesia che rifiuti di misurarsi con i riflessi che le sfere dell’economico e del politico producono – in modi perlopiù selvaggi ed oscuri – sul destino degli individui (evitando di declassarli metafisicamente a “moltitudini” secondo la voga corrente), è poco più che un elegante esercizio di evasione. Ma allora, diranno le infinite anime belle, con preoccupazione, la poesia scade al livello della Prosa? della Cronaca vile? del Pattume più giornalese? Orrore!!!
Rispondo che questo appunto impone la lectio magistralis della modernità come critica dell’economia poetica, che non conclude un corso ma ne apre continuamente di nuovi: sempre però, inesorabilmente, sul filo della coscienza attenta del mondo e della presenza del poeta in questo mondo. Per allegoria, quindi. Per assunzione di responsabilità formale. Per trattamento né tribunizio né sentimentale della lingua, delle lingue. Perché insomma: non si dà prodotto estetico che non sia ideologico, ragazzi: l’importante è saperlo, quindi tenerne conto all’atto della produzione.

La poesia non è fatta di quel vuoto estatico che continuano imperterriti e ciechi ad attribuirle i contemplativi; al massimo, al suo meglio, produce vuoto. Produce disagio, genera instabilità, semina disordine. Parla sempre d’altro. Altera continuamente i giochi: in perfetta buonafede, ovviamente. “Dicono che finga o menta / quando scrivo. No. / Semplicemente io sento / con l’immaginazione. / Non uso il cuore” (dice Pessoa, maestro delle Differenze, arbitro astigmatico delle Distinzioni). La scrittura è un gesto che, quando abbia energia e intelligenza, provoca altri gesti (mentali, intellettuali, e non solo). Non è mai, nella sua apparente gratuità, un atto gratuito. E’ un atto terribilmente motivato che contiene in sé non soltanto una ragione di testimonianza ma una volontà di giudizio. Un poeta degno di interesse è uno che pesa le parole, le cose, i fatti, la memoria, il presente, e ne fa linguaggio che decide per paradosso di spostare l’asse distorto del mondo. Non si accontenta di guardarlo e di descriverlo, con tenerezza o dolore: perché in tal modo ne conferma l’ineluttabilità maligna come l’unica possibile. Un poeta degno di interesse è un costruttore di utopia. Ecco perché, come voleva Brecht, un poeta affidabile non si riallaccia “alla bontà del vecchio ma alla cattiveria del nuovo”: di qui, il rapporto con la lingua come colluttazione mai pacificata, anti-platonica, specchio e luogo del conflitto incessante che è la vicenda degli uomini. La lingua della poesia vive nelle contrapposizioni, nelle guerre, nelle catastrofi: se fa finta di nulla non è neppure una lingua, è una barchetta da diporto. Nasce non per essere adorata in naftalina, ma per essere usata. Un manufatto estetico che non contenga un forte valore d’uso è nient’altro che un passo di balletto per aspiranti ciambellani.
La lingua come protagonista, dunque: con tutti i rischi che l’atteggiamento comporta.

La sua casa non è l’essere, come con radice in Heidegger hanno predicato per decenni certi profeti vaticinanti, ma l’esercizio della contraddizione praticato nei confronti della materia con la giusta distanza e la giusta ironia: la scommessa di uno spazio sterminato che deve passare per la cruna di un ago. Massima irrispettosità per il linguaggio, quindi, come supremo rispetto per lo stesso. Insubordinazione massima ai codici vigenti, in direzione di un altro ordine aperto, da manomettere senza tregua. Lo si può chiamare sperimentazione permanente, qualcosa come una rivoluzione ininterrotta del senso. Lo si può chiamare tensione verso l’avanguardia, in una fase storica in cui anche il grosso della truppa si è perduto di vista, e la macromacchina del consumo detta Industria della Coscienza non produce che poltiglia omogeneizzata da vendere ad acquirenti sempre più svogliati. Gli ex “fruitori” inebetiti si guardano intorno e non sanno più a che santo votarsi. Sì, perché la logica della Cultura come Pubblicità propria dell’indiscriminato mix postmoderno fa dei propri consumatori cloni già morti.

Allora, necessariamente, la poesia deve lavorare come un cecchino: bersagli centrati dal mirino telescopico; scarso spargimento di sangue; massimo risultato ai danni della generale bestialità che si nutre di cattive emozioni. La poesia non è una fiction, è una finzione terribilmente materiale.
Un’operatività terroristica, insomma. La poesia deve fare paura, altrimenti è più serio andare a caccia di balene sul Tevere.
Mario Lunetta

Accademia Platonica, luglio 2005