FAUTE DE MIEUX
12 poesie
di Mario Lunetta
(inedito)
Devi saperti immergere, devi imparare,
un giorno è gioia e un altro giorno obbrobrio
GOTTFRIED BENN, Aprèslude
Santi gatti carnivori
Fu allora, in quell’istante imprecisato, quando
il prete con quella sua sonnolenta e perché no faticosa desinenza
carica di sconfitta disse
ite missa est,
che
l’inadeguatezza delle cose, dell’immaginazione e dei sacri arredi
prese corpo, si rese finalmente visibile:
fu insomma
prossima al tatto, all’olfatto, alla sfottuta deregulation
di troppe menti mentecatte, oltre che dei sospiri
pieni di desiderio, nelle tenebre bianche:
e tutto ciò
che fino a un attimo prima era parso a dir poco
immortale e invulnerabile finì in frantumi, sbriciolato
– una pioggia di schegge, varie
congetture, tiri mancini, contro il cielo di porpora
che ora a un tratto insanguinava le vetrate, e che i gatti carnivori,
a corto di cibo, leccarono con sordida voluttà, indifferenti
al pianto dei pargoli abbandonati sul pavimento
dalle madri snaturate, e alla malinconia immedicabile
dei fiori finti nei vasetti standa di similvetro.
Così è – senza esagerazione –
la vita delle città dentro e fuori dei templi, ai nostri giorni
nutriti di buio,
credetemi.
luglio 2003
La mente, appunto
inoltre, quanto alla cancellazione di molte libertà
& connessa autogestione delle proprie risorse economico-finanziarie
& della propria mente come magazzino inesauribile
& patrimonio a orizzonte sconfinato,
beh, mi pare che le conseguenze siano sotto gli occhi,
& la mente appunto, di ciascuno di voi – quindi, di noi,
di noi tutti, & e di me stesso & medesimo
compreso nel mazzo:
quello stesso medesimo
che verga queste parole incaute su un supporto
più leggero di una foglia d’acero o di betulla, osservando abbacinato
la grande macchia rossa di Giove, tanto simile
a una vagina aperta, & ha voglia
ormai più solo di metterli al muro, i nostri ineffabili
padroni & padrini, patrons & padreterni:
al muro come decalcomanie, niente plotoni
di esecuzione, niente ordini di fuoco! – ci mancherebbe!
eh sì, in questo posto che ha perso perfino il proprio nome, possono,
potrebbero accadere cose così, proprio così, cosiffatte, cosiddette:
si tratta sicuramente di allucinazioni, l’estate
quest’anno è più crudele di sempre. Pardon.
luglio 2003
Tulipano clochard
Ragazzi ambosessi passano lì, mi passano davanti – e non sono,
no che non sono, il passato ma il futuro: almeno
così pare. Nulla di futurista in loro, tuttavia, né di cubo/f., hélas!
Non vogliono certo, con quei gesti da lupetti ammansiti,
conquistare il mondo – lisez: i rimasugli che ne restano –
ma solo esserne accettati, fagocitati da essolui, buon pro
gli faccia: altre brame non hanno, o non
ne manifestano comunque, nei loro visi un po’ appassiti.
Passano nel freddo, i ragazzi ambosessi: e sono
– anche oggi che è una domenica bisesta – tutti uguali, tutti gli stessi,
in una strana festa.
Camminano sfuggenti, dentro una bolla d’aria
che non dà respiro: e intanto – folletto repentino
di un fotogramma di Chaplin –
quel clochard gambe nude e foulard, testa avvolta a turbante
in uno straccio, avanza lentamente verso
chissà mai dove, con in mano
un tulipano arancione: e non li guarda, non ci guarda,
ha altro a cui pensare certamente, fanfan.
29 febbraio 2004
Roma in bottiglia
Del più. Del meno. Del meno ancora, soprattutto:
chiacchierando annoiati, portando la mano alla bocca
(ruttino, smorfia impercettibile), sorseggiando Glen Grant,
picchiando colpi su pensieri futilissimi, su aneddoti
disanimati, sotto la luce fredda delle alogene – ecco, emerge
a un tratto con l’aria di un periscopio di sommergibile
la cima di quel sogno dell’altra notte, che magari
mica è tanto carino riferire, mica tanto rispettoso:
il sogno di Roma, sì, proprio di quella Roma di cui siamo
a tutt’oggi cittadini (ma così poco citoyens), chiusa in una bottiglia,
quasi una nave da carcerati, con tutti i suoi quartieri
i suoi colli il suo fiume, con tutti i suoi monili le sue gemme
le sue bellezze adamantine i suoi orrori le sue maledizioni
millenarie: chiusa in una bottiglia, sigillata da un tappo
di plastica gialla, e là dentro vederla ballare un suo cancan sprocedato,
proprio senza vergogna, alla malandra, e poi di colpo
la bottiglia scoppiata, con la città in frantumi in briciole il polvere
di niente:
la città di Roma tutta persa nell’aria, con solo la Garbatella
indenne, integra come in un altro sogno: e io, natovi
troppi anni fa (stesso segno e stesso giorno di Toulouse-Lautrec),
chiuso dentro la bottiglia, ch’era forse (e senza forse)
un’altra bottiglia, un altro mondo da immaginare (in quel momento
e ora), chiacchierando annoiato, sorseggiando Glen Grant, picchiando
colpi su pensieri futilissimi, su aneddoti disanimati, sotto la luce
fredda delle alogene, ridotto come el licenciado Vidriera
di cui racconta il Grande Monco, ricordate?
Accademia Platonica, 29 gennaio 04
Vendetta vendesi
Vendetta vendesi calda o fredda,
a scelta: modico prezzo, massimadiscrezione.
E’ un avviso pubblicitario
per niente ironico, ancor meno scherzoso.
(E la mafia non c’entra).
C’è di mezzo, suppongo,
la pulsione collettiva – ed anonima,
naturalmente – di almeno metà della tribù
che ancora, non so per quanto, si camuffa
dietro il nome (o la nomea) di popolo italiano, piange
i suoi morti mercenari e fotte gli ingenui,
esclusa la pausa week-end.
Vendetta vendesi calda o fredda: ciboindigesto in altri paesi, sotto altri climi
meno favorevoli.
Qui vale un tramezzino, è abituale
come un cappuccio col cornetto
al bar, commentando con gli amici
l’ultima giocata di Totti, prodigiosa
ed effimera come una stella terrestre, ma già
fissata nella storia
– per sempre.
Roma, dicembre 2003
Nero vocale & bellico
A, noir corset velu des mouches éclatantesQui bombinent autour des puanteurs cruelles
ARTHUR RIMBAUD, Voyelles
Il nero, tra i colori tutti, è il più densoche meglio svela l’invisibile. ADONIS
A nera, E nera, I nera, U nera, O nera,vocali non vocate ma presenti,
unica tinta & corpo calpestato,
schwarz, black, noir, niger, negro disperato:
vi dipingo con nero di miniera,
a colpi di pennello duri & lenti,
& vi chiamo in un urlo sincopato
sotto il vessillo mio sempre abbrunato.
O vocali di guerra in dura forma,
avete voce cruda, truce, amara,
& volate siccome neri corvi.
In terra & in cielo vedo la vostr’orma
piena di sangue come una tonnara
in cui pescano cani neri & torvi.
22 aprile 04
Crack of doom
per Achille Pace
Meglio perdere le tracce di quel filo, rèfolo o refe, nel blu, nel rosso.
Meglio lasciarsi abbacinare dai suoi percorsi invisibili, che hanno smarrito
la linea retta, e corrono verso un baratro sottile.
Meglio socchiudere gli occhi davanti al suo secco morire, al suo crack of doom,
in prossimità delle trombe del Giudizio, evitato per un pelo.
Meglio perdersi nei labili meandri del labirinto disegnato nell’aria
con leggerezza da colibrì: e non pronunciare parola, ché il peso del pensiero
è sempre paralizzante: anche nel blu, nel rosso.
Meglio ascoltare la larva di respiro di quel filo, rèfolo o refe, e la sua voce
di mirabile insetto, di trombettiere del sussurro.
Meglio lasciarsi avvolgere dalle sue spire senza perdono, che non ammettono
errore, e resecano l’epoca con la grazia feroce
di una ghigliottina tenera, nodo scorsoio di dolcissima seta.
Meglio smarrire le orme di quell’itinerario chiuso, contrastato, convergente,
vagante, in formazione aerea, bianco: nel blu, nel rosso.
Meglio fissarne il corpo scheletrito e vivo, defunto e in perpetua rinascenza,
in atto di scivolare nell’abisso, altissimo nel cerchio stretto della luce:
per virtù di gemmazione, di disseminazione, di dispersione:
nel blu, nel rosso, verso il grigio della tela.
Accademia Platonica, marzo 2005
Morfina
Solo quello storico ha il dono di accendere nel passatola favilla della speranza, che è penetrato dall’idea
che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico,
se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.
WALTER BENJAMIN, Tesi di filosofia della storia
Cammina per fermarsi. Si ferma per camminare ancora,
sui ponti, sul pavé, sul macadam, lungo i passages
del tempo andato ch’è già futuro consunto, pasto
per una lebbra smemorata, che fa smorfie da scimmia.
Cammina fermo. E’ il cammino che è fermo: e lui
lo sottolinea col suo passo pesante, sotto nubi
che pesano altrettanto e magari di più, con la sua corpulenza
in cui s’annida la lama della mente che nella sua pietà
non conosce pietà, mentre sfugge lo sguardo dell’angelo,
ambiguo, obliquo, che gli volge le spalle in un sorriso
tremendo, più rischioso di ogni felicità: ed è un automa, un giocatore
di scacchi, fantoccio in veste da turco, pipa in bocca,
dentro un sistema di specchi.
Ora si mangia in un sorriso tenue
dietro gli occhiali quella porzione estrema di vita
rimuginando sulla morte, con la sua corpulenza
e la sua testa implacabile. Cammina, per potersi fermare.
Si ferma ancora, ancora: per un altro cammino che certo
non conosce. Parigi è scomparsa. Marsiglia è vicinissima
e remota. Conta le sue pastiglie di morfina, per la notte.
Dicono sia stato sepolto nel piccolo cimitero di Port Bou,
davanti al mare. Nessuno ha mai individuato la sua tomba.
21 febbraio 2004
Opus preterintenzionale
Nessuno è più ingannatoche de la sua persona.
BONAGIUNTA ORBICCIANI
Troppi cavalli, in questa stanza di vetro – e un aquilone
che subito scompare tra le nubi dipinte – mentre
l’anziana dama sepolta sotto il trucco – ha scordato il bastone
da qualche parte – ha scordato le memorie e le dimenticanze –
ha rimosso la vita e tanto per cambiare – le sedie scricchiolano
sulle loro gambe fragili da uccelli – e gli schienali anchilosati –
e quei due, che sembrano usciti – da uno schizzo di Daumier –
fissano ritratti di una stirpe defunta – magari rimpiangendone la fine –
le pareti mostrano crepe preoccupanti – cade obliqua la pioggia –
gli stivali andrebbero lucidati un po’ meglio, colonnello –
il bosco è qui fuori – lo si vede tumultuare – s’inarca come il Golden Gate –
tra poco c’è da scommettere – invaderà questa stanza di vetro –
i rintocchi di trecento péndoli – rintronano negli spazi troppo esigui –
finiranno per divorare l’epoca interamente – in un nero silenzio –
ma ora voi tacete, tappatevi la bocca – vi vedo ansimanti –
vi vedo come siete – turisti della vita come qualcuno ancora
la chiama – ovviamente sbagliando – lo diceva dubbioso –
anche Meo Abbracciavacca – nei suoi anni di pistoiese ghibellino –
ancora vivo nel dicembre 1300 – già morto nel dicembre 1313 –
Sovente aggio pensato di tacere – eppure nel suo piccolo –a differenza di voi e di me – ancora qualcosa dice – qualcosa che tocca –
in un labile brivido – la nostra romantica esistenza –
cercate di capire – tenete a freno almeno per un istante –
la vostra stupida curiosità – o la vostra disattenzione
da scimmie – nel frattempo io mi sciacquo le mani
a somiglianza di Pilato – e firmo questo ragguardevole opus
preterintenzionale.
16 gennaio 2005
Tonton-macoute
& tutto è futile, tutto è smagliato, abietto, tonton-macoute,
tutto si muove stando fermo, immobile, tutto è statua
di ghiaccio & fumo & vilissima consuetudo, tutto si scioglie in nulla, tutto
è guardingo, tutto è anfetaminico, tutto è claque-merde
sincopata & bestiale, tutto è bestemmia, best seller della fava
testarda, tutto è meno di tutto & (assai di rado) un po’ di più, tutto
è gerbe senza sugo, tutto tace, si tace contro il muro
della menzogna, tutto è marie-salope, tutto è comico, onanista,
avvocatesco, roba da liberti, in compravendita, olé,
tutto è avido, carnivoro, gonfio di sangue, tutto è poisson,
tutto è artritico, tutto è astrologico, tutto ma proprio tutto
è alchimistico & friabile, è malato, inservibile, rétro,
fondu, vache, tutto è poulaille, tutto è image de rien, tutto
& ancor più di tutto è farsa senza tragedia, tutto è indenne, tutto è abbozzato
& lasciato lì, tutto è postribolare, tutto è vaudeville stracotto,
tutto è pluralistico, tutto finisce nella gnocca, paillard, tutto
è intossicazione, recitazione, genuflessione viscida, tutto
è doping, tutto è shop, tutto è accademico, tutto è segreto,
tutto è acido, patetico, indistinguibile, tutto scorre, tutto
è intasato, diarrea, foirade, tutto & poi ancora tutto,
merci bien
GLOSSARIETTO
I tonton-macoute erano, nella Haiti di Duvalier, i mercenari assassini al servizio del governo.
In argot, claque-merde sta per bocca; gerbe sta per vomito; marie-salope per debosciata; poisson
per macrò; fondu vale fuori di testa; poulaille è la polizia; foirade vuol dire diarrea.
Lettura criminale
POLONIUS What do you read, my lord?HAMLET Words, words, words.
WILLIAM SHAKESPEARE, Hamlet
Lèggere le parole
scritte da altri e da altri pensate, affidate
all’ospitalità presunta innocente
di un supporto qualsiasi – carta, pelle, pergamena,
marmo, metallo, sabbia, vetro, display -, non ha
un che di criminale?
Non equivale, enfin, a impadronirsi
di soppiatto non dico dell’intelligenza
o del pathos di chi ne è il probabile autore,
ma semplicemente
della sua volontà di non perdersi per sempre,
come fumo nell’aria?
E l’autore succitato, allora, non è forse
– mi chiedo – il complice (sicuramente inconsapevole, quindi sempre
in perfetta malafede) del criminale che ne legge le parole?
Il fatto è che nessuno si salva, in questo
gioco truccato: non c’è candore, né ingenuità,
né presunzione di innocenza.
Tutta nella curiosità, la colpa. Tutta
in quel voyeurismo ipocrita
denominato lettura, faute de mieux: attività
che la natura non contempla né assolve, visto
che non da ieri ma da sempre legge solo se stessa, ciecamente,
nel suo libro dei misteri.
3 giugno 2004
Dopo il paesaggio
Ci si disponga pure, con una dose minima di buona volontà e un residuo di
distrazione, a guardare il paesaggio: questo scenario cartapesta che ci illudiamo di avere
davanti agli occhi (gli occhi della mente, s’intende: non della memoria, che gioca
invariabilmente pessimi scherzi, in tutte le stagioni) – ed è, o sembra, un paesaggio,
un landscape, una Landschaft deprivata di orizzonte, senza profumi, senza luce,
piena di ceneri umane, spianata crematoria dalle cui ciminiere
si elevano pigramente folate di fumo scuro, e in quella regione di cielo
non navigano uccelli, si vedono solo fantasmi, ombre senza profilo
annichilite contro il vuoto, e il mare
a un tratto arretra, si ritira (gioco di prestigio
grandioso), ripiega su di sé come nella messa in scena di un incubo planetario,
e non lascia il suo fondo alla vista, mostra non più che la sua vasca – qualcosa
di tremendamente filosofico, qualcosa di teologicamente scherzoso, da portae Inferi,
da frontiera del nulla:
e qui, ora, nonostante tutto, quest’amica
che vive negli States mi sussurra soave: “voi in Europa vedete da lontano gli effetti
della prossima fine, noi ci siamo già dentro, viviamo come scoiattoli ciechi
nel luogo dove si programma, e si mette in atto, la distruzione del mondo: tutta qui
la differenza tra noi – noi possiamo guardarvi, voi non potete guardare noi: e non è solo,
credimi, questione di potenza oculare”.
8 gennaio 2005