il Barocco fra modernita’ e postmoderno

Recensione a Gaetano Delli Santi, La forza generativa del Barocco. L’eredità estetico-linguistica del Barocco alle Avanguardie. Fabio D’Ambrosio Editore, Milano 2006.

“ I diritti di una semantica barocca, cioè aperta alla proliferazione del significante: infinita e pur tuttavia strutturata”. Questa affermazione di Roland Barthes trova la sua più ampia e documentata esemplificazione nel lavoro di Gaetano Delli Santi su “La forza generativa del Barocco”. Il linguaggio pluralistico del barocco consente una produttività straripante e ramificata che non può essere frenata da “nulla accademia”, come avrebbe detto Giordano Bruno, barocco anch’egli sia per la sovversione dei dogmatismi ideologici sia per la “proliferazione” anticlassicistica del suo linguaggio. Ed in un certo senso la stessa struttura linguistica dell’opera di Delli Santi, articolata su piani e sequenze linguistiche diverse, si rifà a quella versatilità bruniana: dal saggio all’ipertesto all’immagine, fino alla linea dialogica fra i due contendenti che conducono il libro, Barsabucco e Sanbollito. La cui caratterizzazione icastica e paradossale non può non ricordare Salviati, Sagredo e Simplicio del “Dialogo dei massimi sistemi” di Galilei.

Il cardine dell’argomentazione di Delli Santi è una visione antiaccademica e non paludata dell’allegoria, che egli riprende dal saggio di Walter Benjamin sul Dramma barocco tedesco: “nel campo dell’intuizione allegorica l’immagine è frammento”. Devo ammettere che, senza Benjamin, avrei fatto fatica a recepire tale accezione dell’allegoria. Rimango tuttora legato alla distinzione junghiana, per la quale, mentre il simbolo appartiene all’inconscio, l’allegoria si sviluppa sul piano della coscienza, rendendosi con ciò meno disponibile ad una creazione artistica che non sia mera artificiosità studiata. Ma in realtà l’uso che il Barocco fa dell’intuizione allegorica, come largamente dimostra Delli Santi con numerosi esempi, va ben oltre ai limiti di tale razionalità e dei suoi canoni. L’allegoria del Barocco non è l’uso scolastico delle figure che si può trovare nel Romanzo della Rosa, o ancora nella Fairie Queen di Spenser. E’ invece la frantumazione delle figure, ricomposte in un insieme espressivo ed in movimento la cui disorganicità non è caso, ma messa in discussione dei canoni e, spesso, dei valori. Frammentazione dinamica nei quadri dell’Arcimboldo e nelle chiese del Borromini, che ritorna, come più volte sottolinea Delli Santi, nell’invenzione antimercantile delle avanguardie novecentesche, Boccioni e Depero, Duchamp e Majakovskij.

Se questa connessione con le avanguardie è fondata, dove si colloca allora, storicamente e creativamente, il Barocco? Questa è la grande domanda che il testo di Delli Santi ci pone. Prendendo spunto da Ernst Gombrich, potremmo dire che i manieristi postrinascimentali sono stati i primi, veri artisti moderni, perché hanno mirato a “creare qualcosa di nuovo e di inatteso anche a spese della bellezza naturale”. E dunque il Barocco, che del manierismo sviluppa le conseguenze fino alla dissoluzione delle forme (pittoriche, architettoniche, poetiche) classiche, rimettendole nel calderone di una creatività che guarda tutto da nuovi ed innumerevoli punti di vista, che cos’è? L’estremo frutto della modernità? O non già forse le soglie del postmoderno? Non è un quesito da pedanteria storiografica, e lo stesso Delli Santi se ne rende conto affrontando direttamente la questione del moderno e del postmoderno come due condizioni per l’Avanguardia, “da cui partire per la realizzazione di un’arte sperimentale transestetica”, ma fra di loro in contraddizione.

Il problema non può essere ovviamente compreso nei ristretti limiti di una periodizzazione cronologica. Come sottolinea Delli Santi, che ne cerca il discrimine nella forza utopica delle Avanguardie, tesa al miglioramento sociale, contro l’aleatorietà asociale del Postmodernismo. In questo senso, l’avanguardia si pone come emanazione dell’Utopia del modernismo. E anche il Barocco, di cui l’avanguardia è l’erede, sarebbe dunque a suo modo moderno. Conterrebbe quindi in sé il rapporto arte-vita ed il seme di quella rivolta, estetica, culturale e sociale al tempo stesso, che traspare nei più grandi protagonisti cui Delli Santisi richiama, da Bruno a Galileo, da Velasquez a Sterne?

Per quanto sia innegabile il ruolo rivoluzionario, svolto contro i dogmi ecclesiastici, aristotelici ed accademici dai maggiori rappresentanti dell’età barocca (come in altri termini dalle avanguardie novecentesche), ho personalmente dei dubbi nell’attribuire oggi così tanta importanza alla divisione ideologica fra moderno e postmoderno o, come altrimenti direbbe Majakovskij, al “mandato sociale del lavoro poetico”. Dal mio punto di vista, sottolinierei maggiormente l’elemento di rivoluzione linguistica, di smantellamento e ricreazione di linguaggi che credo avvicini barocco, avanguardia e neoavanguardia, e a mettere in comune soprattutto l’aspetto ludico, spettacolare e dissacratorio che può emergere sia dal moderno che dal postmoderno. E credo che ciò in fondo vada di pari passo con la critica che Delli Santi rivolge alla razionalità scientista ed all’ossessione progressista della stessa modernità: non è nella costruzione di nuovi miti progressivo-tecnologici che sta l’interesse del moderno, ma semmai nella dissoluzione dei vecchi con la capacità di costruire infiniti linguaggi.

Come affermava sempre Roland Barthes, parlando di Fourier (quindi di autore ottocentesco cronologicamente altro, ma trasgressivamente affine a questi temi), siamo nel campo della “ghiottoneria della parola”; “il neologismo è un atto erotico, e per questo solleva immancabilmente la censura dei pedanti”. L’erotismo del linguaggio (non “il linguaggio erotico”!) è il filo anomalo ed irregolare che collega fra di loro Marino e Marinetti, Sade e Fourier, D’Aubignè e Lautreamont, Arcimboldo, Bernini e Caravaggio, Dalì, Magritte e gli sperimentatori contemporanei. E se un’evoluzione si può riconoscere in quello che si vuole chiamare postmoderno, è forse un’ulteriore consapevolezza ironica e distaccata della sovvertibilità di ogni affermazione e di ogni ideologia, persino di quelle sovversive. Se vogliamo, è la critica di Bataille al trotzkismo di Breton. Come dimostrano le vicissitudini di Teresa d’Avila, che passa da un’estasi mistica ad un’estasi erotica nella scomposizione vitale e dinamica che ne fornisce il Bernini, acutamente analizzata da Delli Santi; e che infine, come opera d’arte, diventa a sua volta oggetto di caricatura scompaginante – religione e dissacrazione, eros e dissoluzione violenta – sotto la crudele penna (postmoderna?) di Pierre Klossowski.

Paolo Pagani