la forza inventiva del Barocco e dell’Avanguardia contro la tradizione petrarchista

da la forza generativa del barocco
l’eredità estetico-linguistica del Barocco alle Avanguardie
in corso di pubblicazione fabio d’ambrosio editore
di Gaetano delli Santi

NB: i riferimenti e i rimandi alle note sono relativi al testo da cui il brano è tratto.

Il Barocco -come l’Avanguardia- si pone contro la tradizione petrarchista facendo emergere un linguaggio ricco di scherzi, di stramberie e di sghignazzi grotteschi, allo scopo di rivelare liberamente i lati osceni dell’esistenza umana.
Quando si tratta di osservare criticamente l’uomo e i lati peggiori della sua esistenza, le parole mordono, si fanno corrosive e caustiche, distorcono il loro senso rendendosi equivoche e fisicamente fastidiose:
«Farò veder le bassezze innumerabili, le sciapitezze inenarrabili, le durezze insopportabili, gli storcimenti del buon parlare, le contradizioni delle sentenze, i barbarismi delle frasi, gli storpi della lingua, le freddure degli agggiunti, le meschinità delle rime, infino alla falsità delle desinenze scappate, che non si possono scusare, perciochè non son notate nel registro degli altri errori».

Per il letterato barocco non valgono più le patetiche melodie né le espressioni poetiche felicemente ripescate dalla tradizione petrarchista. Egli prova ripugnanza per il mantenimento della tradizione. Piuttosto che conformarsi ad essa, egli preferisce sguinzagliare -contro il concetto stesso di imitazione- un linguaggio -quando occorre- ripescato dalle interiora di un artificio linguistico senza garbo né grazia, capace di organizzare meticolosamente un materiale linguistico posto a fondamento di uno stile combattivo, non certamento appiacevolito da fronzoli e belletti che inducono le parole ad astenersi dal confessare la propria incapacità di criticare e autocriticarsi:
«Lo stile con che si combatte co’ vizi (afferma Daniello Bartoli in Dell’uomo di lettere difeso ed emendato – 1645) è così guerriero come la spada, la cui bontà e finezza non è posta negli ori dell’elsa, non ne’ diamanti del pomo, ma nella tempera dell’acciaio».

Il linguaggio barocco viene elaborato sulla necessità di andare a segno con ciò che si vuole effettivamente ottenere. Se ci si vuole scuotere dall’ubriachezza idilliaca di uno stile che mira a uniformarsi a uno stato contemplativo, se si intende scendere tra le deformità della natura e del mondo, allora occorre che il linguaggio e lo stile si rinnovino e si rafforzino in tutti i loro aspetti, alla stessa stregua di una società che si evolve, poiché , come dice Daniello Bartoli «Certe lime logore e sdentate servono ad imbrunire il ferro e dargli il liscio e ‘l lustro. Ma dove è ruggine, altro ci vuole: che graffi, che morda, che scortichi. Quanto più intacca nel vivo, tanto fa meglio. (…)Sia dunque lo stile, dove s’ha a combattere, non uno sposo, ma un guerriero. Dove le parole hanno ad esser saette, non si empia la bocca di fiori per mandarne ad ogni periodo un nembo, come se i vizi fossero scarafaggi, a’ quali l’odor de’ fiori è veleno mortale, o si volessero uccidere i suoi avversari come Eliogabalo i suoi amici, affogandoli nelle rose. È una non ancor intesa pazzia far duello ballando, e mescolare gli assalti con le capriole e i fioretti con le passate. Arma nuda non vuole scherzi. Colpi c’hanno a far piaga nel cuore non si tirano incontrando il petto nemico con maniere vezzose, più di chi abbraccia che di chi ferisce.» (52)

Quanto tutto ciò sia vicino allo spirito avanguardistico, ce lo rivelano le parole enunciate da Aragon, Breton ed Èluard in una lettera aperta indirizzata allo scrittore Paul Claudel, in forma di polemica, nel luglio 1925:
«Noi auguriamo con tutte le nostre forze, che le rivoluzioni, le guerre e le insurrezioni coloniali distruggano codesta civiltà occidentale, i cui pidocchi (vermine) voi diffondete fino a Oriente».
E in Majakovskij che cosa vi troviamo se non la stessa identica forza poetica? “La parola/é un condottiero/della forza umana” e il “verso esplode” carico “di dinamite”. (in Majakovskij, La raccomandazione).
La poesia in questo caso, non solo si fa carico dei problemi sociali (per cui fronteggia i vizi e i mali di una società politicamente degenerata, contrariandola e opponendosi con tutto il suo apparato linguistico, estetico e contenutistico), ma combatte e oppugna pure i “castrati lirici” per i quali esiste, come unico scopo della loro poesia, l’intento di esaltare, sublimare e lodare il proprio io, alla facciaccia di un mondo che si macera nei propri difetti, nei propri errori e orrori.
Per tentare di riuscire in questo proponimento, la parola deve farsi “baionetta e frusta”, così come già col Bartoli lo “stile” deve farsi “guerriero”, o lima che “graffi”, “morda” e “scortichi”.

Per tentare di riuscire in questo proponimento, la parola deve farsi “baionetta e frusta”, così come già col Bartoli lo “stile” deve farsi “guerriero”, o lima che “graffi”, “morda” e “scortichi”.

«Incominci a cacciare/nel verso/quella parola,/che non entra,/e tu premi e spezzi./Citttadino ispettore delle imposte,/mi devi credere,/costano le parole al poeta./Parlando al modo nostro,/la rima/è una botte./Carica di dinamite./Il verso/la miccia./Bruciata tutta la riga,/il verso esplode,/e una città/salta in aria/con la strofa./Dove troverai,/in quale tariffa,/le rime,/che, puntate, accoppino d’un colpo?/Sprechi,/per una sola parola,/ migliaia di tonnellate/di minerale verbale./Ma com’è rovente/il fuoco di queste parole/ di fronte al tepore/della parola grezza!/Queste parole/mettono in movimento/migliaia d’anni,/milioni di cuori./S’intende che vi sono/poeti di specie diverse./Quanti di loro/hanno la mano facile!/Estraggono un verso/dalla bocca/propria/e altrui,/come giocolieri./Che dire poi/dei castrati lirici?!/Basta loro/disporre/un verso altrui./Questo/è comune/furto e peculato,/fra i peculati di cui il paese è preda.
È nostro debito/ruggire come/una sirena dalla gola di rame/nella nebbia dei filistei,/nel ribollire delle bufere./Il poeta/è sempre un debitore/dell’universo, che paga/sul dolore/percentuali/e ammende./Ma la forza del poeta/non è solo nel fatto/che, ricordandolo,/ i posteri/avranno il singhiozzo./No!/Anche oggi/la rima del poeta/è carezza/e parola d’ordine/e baionetta/e frusta.»

Il linguaggio pluralistico del Barocco in contrapposizione al monolinguismo del Petrarchismo

Il linguaggio barocco -sia esso letterario, artistico o scientifico- muta, a seconda dei casi, il proprio apparato linguistico.
Il petrarchismo è caratterizzato da monotona linearità linguistica e stilistica: linguaggio misuratamente tranquillo, rivolto a enumerare -il più delle volte- i pregi di una natura essenzializzata nell’evocazione di un ordine assoluto, lineare e simbolicamente interiorizzato dall’io contemplativo; stile che non scende in mezzo a una umanità travagliata, ma vestito di tutto punto di regole e assiomi classicistici, e di fronzoli sintattici e grammaticali, si dà tutt’al più a contemplare la natura, a corteggiare e a idealizzare la propria amata o gli umori di un io tutto dedito a parlar di sé.
Di contro, il linguaggio barocco, si esprime sapendo che il mondo è formato da parti che con discorde concordia insieme son congiunte e collegate.
La natura interpretata dal Barocco non è quindi -contrariamente a quella petrarchista- ferma in un’atmosfera senza vento e senza vita, marmorea, mnemonica, vista e ricordata più che vissuta, contemplata più che esplorata. La natura barocca è vita: è una cosmogonia piena di orifizi, di penombre, di caos, di variazioni, di memorie, di instabilità, di accumuli, di residui, di lacerti, eccetera eccetera.

Torquato Tasso, che si pone in diversi suoi scritti come precursore del Barocco, afferma: «Sí come in questo mirabile magisterio di Dio che mondo si chiama, e ‘l cielo si vede sparso o distinto di tanta varietà di stelle, e discendendo poi giuso di mano in mano l’aria e ‘l mare pieni d’uccelli e di pesci, e la terra albergatrice di tanti animali cosí feroci come mansueti, nella quale e ruscelli e fonti e laghi e prati e campagne e selve e monti si trovano; e qui frutti e fiori, là ghiacci e nevi, qui abitazioni e culture, là solitudini ed orrori; con tutto ciò uno è il mondo che tante e sí diverse cose nel suo grembo rinchiude, una la forma e l’essenza sua, uno il modo dal quale sono le sue parti con discorde concordia insieme congiunte e collegate; e non mancando nulla in lui, nulla però vi è di soverchio o di non necessario: così parimente giudico che da eccellente poeta (il quale non per altro divino è detto se non perché al supremo Artefice nelle sue operazioni assomigliandosi, della sua divinità viene a partecipare) un poema formar si possa, nel quale, quasi in un picciolo mondo, qui si leggano ordinanze d’eserciti, qui battaglie terrestri e navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli, qui giostre, qui descrizioni di fame e di sete, qui tempeste, qui incendi, qui prodigii; là si trovino concilii celesti ed infernali, là si veggiano sedizioni, là discordie, là errori, là venture, là incanti, là opere di crudeltà, di audacia, di cortesia, di generosità; là avvenimenti d’amore, or felici or infelici, or lieti or compassionevoli; ma che nondimeno uno sia il poema che tanta varietà di materie contegna, una la forma e favola sua, e che tutte queste cose siano di maniera composte, che l’una l’altra riguardi, l’una a l’altra corrisponda, l’una da l’altra o necessariamente o verisimilmente dependa; sí che una sola parte o tolta via o mutata di sito, il tutto ruini.» (da Discorsi dell’arte poetica)

Nell’osservare attentamente un’opera d’arte barocca, nel lasciarsi trascinare dal flusso capriccioso di un testo barocco, infatti, non si ha la sensazione di attraversare il visibile e il sensistico della vita -simultaneamente- in tutto il suo aspetto enciclopedico? E non uno solo dei suoi aspetti (foss’anche infimo, miserevole o terrificante) che venga tralasciato con l’intento di ammorbidire staticamente la forma.
Gian Paolo Lomazzo, ci rivela come l’artista barocco abbia sempre tentato di interpretare la natura e il mondo, oltre che in maniera allegorica e concettosa, in maniera prevalentemente naturalistica e perciò pluralistica:
«Quelli che in questa parte hanno avuto eccellenza e grazia, così ne i luochi privati, come ne i publici, hanno ritrovato diverse vie di farne, come primamente luoghi fetidi, oscuri, sotterranei, religiosi e funesti, ne i quali si rappresentano cimiteri, sepolcri, case inabitate, luochi spaventevoli e solitari, spelonche, caverne, piscine, stagni e simili; luoghi privilegiati ne i quali si esprimono templi, concistori, tribunali, ginnasi e scuole; luochi di fuoco e di sangue dove sono fornaci, molini, macelli, forche, patibuli; altri chiari e d’aria serena, ne i quali si rappresentano palazzi, case di principi, pulpiti, teatri, troni, e tutte le cose magnifiche e reali; altri dilettevoli ne i quali sono fonti, prati, orti, mari, rive, bagni e luochi dove si bala. Evvi ancora un’altra sorte di paesi ne i quali s’esprimono officine, scuole, taverne, piazze di mercanti; fannosi deserti, selve, rupi, sassi, monti, boschi, acque, fiumi, navi, luochi populari e stuffe, o vogliam dire terme. E quello che di queste sorti di paese averà cognizione, ne potrà di loro adunare in prattica felicemente in un paese et in diversi, secondo che al suo giudicio ordinato parerà.»

Se i petrarchisti si limitavano, relativamente alla scrittura lirica, al plagio del linguaggio petrarchesco, l’autore barocco dilata così tanto la sua visione -anche tecnica- da ottenere una struttura aperta, che, schiusa al mondo del visibile, finisce per oltrepassare i propri confini fino al punto di insinuarsi in una realtà inconoscibile o precedentemente del tutta ignorata.

È il caso -fra tanti- del già citato Daniello Bartoli. In molte pagine delle sue prose, assistiamo a una scrittura che si imbastardisce a causa di un pluralismo linguistico costituito da una gran varietà di modi di esprimersi. La sua scrittura viaggia su un percorso accidentale: girovaga fra idiomi tecnico-scientifici, erra fra l’esotico e l’aulico, passeggia su locuzioni morali espresse in qualità di sermoni, raminga fra il letterario e il filosofico, fra il poetico e il curialesco. A causa di questo suo pluralismo espressivo (oltre che contenutistico) la scrittura dei suoi componimenti in prosa si rende impura agli occhi dei dettami e dei fondamenti dei cruscanti, che vedevano di mal’occhio qualsiasi scrittura che si esprimesse in stile pluralistico e eclettico.

Il pluristilimo in Dante, anticipatore del Barocco e dell’Avanguardia

Occorre ricordarsi che per queste stesse ragioni, per molti secoli Dante non fu -per la cultura dominante accademica- degno di essere considerato poeta. Il linguaggio della Divina Commedia è da considerarsi anomalo rispetto alle regole canoniche che impone la scrittura poematica. Il suo imbastardimento consiste nell’aver inzeppato la scrittura poetica di vocaboli impuri, quali espressioni gergali, neologismi, barbarismi dialettali. Inoltre, il linguaggio poetico -che molto dipende dall’uso del parlato toscano- (a detta di Niccolò Machiavelli) risulta sporcato, inzaccherato qua e là da una lingua vernàcola e furbesca che nulla ha a che vedere con un linguaggio lirico. E quel che v’è di peggio, a detta di alcuni settecentisti, Dante non rispetta le dottrine stabilite dal poema omerico. Quindi, non è un poema:
«E questo è un poema, un esemplare, un’opera divina? Poema tessuto di prediche, di dialoghi, di quistioni, poema senza azioni…? Quattordici mille versi di tai sermoni, chi può leggerli senza svenir d’affanno o di sonno?»
Tant’è che Gasparo Gozzi fu costretto nel 1758 a pubblicare un testo dialogico (ad uso dei biechi accademici) dal titolo Difesa di Dante, in cui dichiara (esaltando uno dei tanti pregi che Dante seppe dare alla sua Divina Commedia, il pluristilismo):
«…nel vero, non solo è squisito poeta, ma sì nuova e originale è la sua invenzione, e andò così alto e così fuori d’ogni umano pensiero, ch’egli a leggerlo ti pare ogni genere di poesia, ed è la poesia di Dante».
Ma già nel 1572 vi fu un testo (dal titolo: Discorso nel quale si mostra l’imperfettione della «Commedia» di Dante contro al «Dialogo delle lingue» del Varchi), divulgato in forma di manoscritto, di Ridolfo Castravilla, che accese diatribe riguardo alla Divina Commedia. E vi fu pure chi, come Jacopo Mazzoni, a quella diatriba rispose con un Discorso in difesa della Commedia del divino poeta Dante, pubblicato nello stesso anno a Bologna, col pseudonimo Donato Roffia.
Alle innovazioni linguistiche e stilistiche, all’inventio delle tematicità, al conio di nuove espressioni e vocaboli, al pluristilismo, al plurilinguismo, alla struttura polisemica di tutto il racconto della Divina Commedia, Saverio Bettinelli contrappone in una delle sue Lettere Inglesi, il seguente giudizio, che dichiara essere l’opera di Dante nient’altro che un: «libro per dotti, che è oscuro, antiquato, disusato e che, in fine, non è da dare ai giovani alla cieca».
Stando alle premesse sovracitate, si potrebbe quindi a ragione, dire che il Barocco attinge stilemi dalla Divina Commedia: Dante viene vissuto come precursore, proprio perché il suo poema ha una struttura tanto aperta quanto pluralistica, sia sul piano linguistico sia stilistico.
Il poema di Dante si muove dinamicamente -come farà poi il barocco- sullo sviluppo del pluristilismo e della polisemia: la scrittura poematica non segue la linearità della elocuzione consueta e abituale ch’è tipica di una comunicazione di scambio o di un codice stilistico pre-stabilito: questa trasferisce al senso semantico del discorso soltanto una significanza testuale, di primo livello, e formale, nonché autoreferenziale.
Dante, inoltre, inventa e modella parole in base a un’espressività linguistica programmatica. Afferma Emilio Pasqualini:
«Imponente… il ricorso ai latinismi, sia quelli già penetrati nella lingua dotta del tempo specie per merito dei volgarizzatori (…), sia quelli che egli per primo trapianta nel nostro lessico, ora perché vi manca un termine equivalente, ora a perseguire toni di gravità solenne (specie nella terza cantica), ora invece per alludere ai modelli antichi».
L’espressività polisemica viene accentuata da Dante anche da un materiale linguistico «fonico-timbrico» al quale Dante «associa» una «magistrale conoscenza di sottocodici o registri, da lui mescidati ad arte col codice di base», cosicché «la rima (sede privilegiata dei neologismi danteschi), (…) è essa stessa stimolatrice suprema d’invenzioni».
In definitiva: «Dante seppe dare dignità letteraria a modi e termini vivi nell’uso popolare e parlato (…). Nel moderato arcaismo, nell’assunzione di voci plebee, nello spregiudicato adattamento di voci latine (nel considerare cioè il latino serbatoio inesauribile per l’arricchimento del nostro lessico), nel polimorfismo o nell’allotropia, nella ricchezza sinonimica, nell’arcobaleno delle neoconiazioni, il genio linguistico di Dante prefigura le tendenze più singolari della nostra lingua (…). Rispetto agli stessi Petrarca e Boccaccio, la lingua dantesca rivela una disponibilità infinitamente superiore ad utilizzare tutte le risorse del sistema linguistico fiorentino o dei sistemi ad esso riconducibili sull’asse diacronico (laninismi, arcaismi, provenzalismi ecc.) come su quello sincronico (settentrionalismi, meridionalismi, tascanismi ecc.); di qui la maggior forza di penetrazione in ambienti diversi, favorita da un massimo di energia poetica».

Daniello Bartoli, il Dante della prosa italiana

E non è un caso che Leopardi consideri Bartoli il Dante della prosa (affermando così implicitamente che sia Bartoli che Dante utilizzano un linguaggio letterario che li accomuna):
«Il padre Daniello Bartoli è il Dante della prosa italiana. Il suo stile in ciò che spetta alla lingua è tutto a risalti e rilievi» (22 marzo 1822). E ancora:
«Io posso dire per esperienza che la lettura del Bartoli, fatta da me dopo bastevole notizia degli scrittori italiani d’ogni sorta e d’ogni stile, fa disperare di conoscer mai pienamente le forze e la infinita varietà delle forme e sembianze che la lingua italiana può assumere. Vi trovate in una lingua nuova, locuzioni e parole e forme delle quali non avevate mai sospettato, benchè le riconosciate ora per bellissime e italianissime: efficacia ed evidenza tale di espressione che alle volte disgrada lo stesso Dante, e vince, non solo la facoltà di qualunque altro scrittore antico o moderno di qualsivoglia lingua, ma la stessa opinione delle possibili forze della favella. E tutta questa novità non è già novità che non s’intenda, chè questo non sarebbe pregio ma vizio sommo, e non farebbe vergogna al lettore ma allo scrittore. Tutto s’intende benissimo e tutto è nuovo e diverso dal consueto: ella è lingua e stile italianissimo, e pure è tutt’altra lingua e stile; e il lettore si maraviglia d’intender bene e perfettamente gustare una lingua che non ha mai sentita, ovvero di parlare una lingua che si esprime in quel modo a lui sconosciuto, e però bene inteso. Tale è l’immensità e la varietà della lingua italiana, facoltà che pochi osservano e pochi sentono fra gli stessi italiani più dotti nella loro lingua; facoltà che gli stranieri difficilmente potranno mai conoscere pienamente, e quindi confessare». (13 luglio 1821)«Quello che altrove ho detto della lingua del Bartoli dimostra quanto la nostra lingua si presti all’originalità dello stile e degli stili individuali, in tutti i generi e in tutta l’estensione del termine» (30 novembre 1821).

In tutta la prosa di Daniello Bartoli vi si configurano, dichiaratamente e assiduamente, come in Dante, la polisemia e il pluristilismo. Il frammento di prosa che segue (da La ricreazione del savio) è, in questo senso, fra i più significativi, si potrebbe considerare quasi un Manifesto, ovvero messa in atto di un intendimento teorico.

« (…) ciò che han di maraviglioso le chiocciole ne’ lor gusci: la bizzarria delle invenzioni, la varietà degli avvolgimenti, la vaghezza degli ornamenti, la disposizion de’ colori, le capricciose forme, la medesima e in tante maniere diversificata materia, e il maestrevole suo lavoro. (…)
E non s’è egli mostrato sommamente ammirabile Iddio nel variare in cento e più diverse maniere il circolarsi e ravvolgersi d’una chiocciola in se stessa? (…)
Alcune si girano con volute, campate l’una fuori dell’altra appunto come se si attorcigliassero intorno a un fuso; e, procedendo in lungo, assottigliano e fino in punta digradano con ragione. Altre all’opposto tutte in loro stesse ritornano…(…)
Di queste poi, quelle che chiaman veneree, e le in parte lor somiglianti, nulla mostran di fuori come s’attorcano, ma, ricoverte d’un nicchio, che parte s’inarca e parte spiana, quivi entro s’avviluppano sì che punto non pare. Altre, da un grosso capo tutto incoronato o di merli o di pennacchini o d’una cresta che serpeggia intorno, van giù a poco a poco mancando fino a stringersi come un paleo. Altre covano alquanto, e sembra che portino cupolette e capannucci l’un sopra l’altro. Ve ne ha delle schiacciate, delle ritonde, delle increspate, delle distese e aperte, delle tutte in loro medesime aggomitolate. Ma in qualunque foggia diverse o, come sogliam dire, cavate di fantasia, tutte con decoro, con avvenenza, con garbo, tal che di mille che ne avrete davanti non saprete qual sia la più ingegnosamente foggiata: e dico anche, se pur è da dirsi, le lavorate ad opera strapazzata, ché quel medesimo in che sembrano incolte è negligenza ad arte, per far vedere una deformità con grazia, una rozzezza con maestà, un mostro, ma di bellezza.
Non ne passiamo le bocche senza farne almen sentire una parola, peroché anch’elle hanno una particolar grazia, e le squarciate e le chiuse e le più o meno aperte. Chi sa il perché di quelle che in un lungo canaletto la sporgono due e tre volte tanto com’è tutto il lor corpo? Chi di quelle che gittano da ambe le labbra certe a guisa di branche lunghe e serpeggianti come fossero polpi, se non che le hanno impetrite e immobili? Chi di quelle grandissime che giù, riversano il labbro come i mastini, poi il ripiegano e ‘l tornano alquanto in sù, con una bizzarria che ha il suo bello, e non sa dirsene il perché? Chi di quelle a cui spuntano i denti su ‘l labbro ben lunghi e ben sodi, ma innocenti, sì come sol per ornarsene, non per ferire? Chi in ciò non ravvisa né leggiadria né maestà né vaghezza, neanche la ravviserà nella informe bocca d’una spelonca, d’architettura rustica naturale: e pure quegli sregolati accozzamenti delle pietre che così rozzamente l’inarcano fanno il più delle volte un lavoro sì bello agli occhi degl’intendenti, che dilettano niente meno di qualunque sia porta di bellissimo ordine. E chi volesse o spianarne i risalti o rimetterne le pendenze o costringerne tutte le parti a misura o ingentilirne la rusticità con intaggi, quanto le desse dell’artificioso, tanto le torrebbe del bello: ché gli archipenzoli, le squadre, i compassi non sono strumenti che servano al capriccio, quando lavora senz’arte, senza regola e senza disegno, e pur con arte, con regola e con disegno.
Nel rimanente poi del corpo pare che altresì fra le chiocciole vi sian le nobili e le plebeie, le rustiche e le gentili. Altre crostute e scagliose, che sembrano avere indosso un ghiazzerinodi pietra; altre ricciute e nodose, che per tutto gittano e sproni e spine; altre lisce e invetriate d’un sottilissimo lustro. Certe maggiori sembrano lavorate a scarpelli, così ben ne fingono i colpi con le intaccature e co’ fregi: al contrario del bellissimo nautilio, in cui puossi vedere né più dilicatamente né più egualmente condotta quella sottilissima e durissima sua corteccia impastata d’argento e di perle…(…)
Or finiamo con solamente accennare la varietà de’ colori e la vaghezza degli ornamenti, onde le chiocciole son sì belle. Eccovene in prima le vestite d’uno schietto drappo: argentine, bianche, lattate, grigie, nericanti, morate, purpuree, gialle, bronzine, dorate, scarlattine, vermiglie. Poi, le addogate con lunghe strisce eliste di più colori a divisa: e quali se ne vergano per lo lungo, quali per lo traverso; alcune diritto, altre più vagamente a onda. Ma certe, in vero maravigliose, lavorate a modo d’intarsiatura con mmuzzoli di più colori bizzarramente ordinati; o d’un musaico di scacchi, l’un bianco e l’altro nero, quanto alla figura formatissimi e alle giunture non isfumati punto, ma con una division tagliente, come appunto fossero alabastro e paragone strettamente commessi. Le più sono dipinte a capriccio, o granite, gocciolate, moscate; altre qua e là tocche con certe leggerissime leccature di minio, di cinabro, d’oro, di verdazzurro, di lacca; altre pezzate con macchie più risentite e grandi; altre o grandinate di piastrelli o sparse di rotelle o minutissimo punteggiate; altre corse di vene come i marmi, con un artificio senz’arte; o spruzzate di sangue in mezzo ad altri colori, che le fan parere diaspri. Ma la varietà e la bellezza degli ornamenti e le mirabili lor partiture non si può divisar tutta in brieve, né dirsene a lungo, perché noi non abbiam tanti vocaboli quanti esse hanno abbigliamenti per arredarsi e ben parere. Lascio le messe a scavature e risalti, scanalate, grinzute, rugose. Che direm di quelle a cui su le giunture delle volute spiana una cornice di maraviglioso intaglio? Di quelle a cui fra due corsi di spine dilicatissime o fra due creste che alzano un po’ poco, si distende un fregio di strane sì, ma graziose figure, o una che sembra intrecciatura di più catene? Di quelle che tutte son filze di perle e di gemme, l’una presso all’altra e in loro stesse rivolte, o a luogo a luogo tempestate a gocciole di cotali smalti che sembrano gioielletti? Di quelle che per tutto il corpo son seminate di scudetti, rosette, borchie, bisantini, con in mezzo, a chi un bottoncello che sopravanza, a chi un pennacchietto che ne spunta con grazia? Una ve ne ha, indiana, tutta intessuta di sottilissimi cordoncini, non solamente di più colori schietti, l’uno immediato all’altro, ma di certi a ogni tanti di questi, di due fila diverse, violato e bianco, attorcigliate insieme: e miracolo che mai una volta fallisse il tornar sopra quel che dà volta sotto, alternandosi fedelmente l’un colore e l’altro, come lavoro di mani che aveano sopra una mente direttrice al muoversi con disegno e con arte.
(…)
Evvi nella natura animal più dispregevole o più informe d’una chiocciola? La notomia, per quanto cerchi in quel corpo, non sa trovare né membra organizzate né parti in nulla dissimili: e d’ammirabile han sol questo, non aver niente dell’animale e pur esserlo; e nondimeno Iddio le ha degnate d’un così ben lavorato albergo, che i palagi de’ re ne perdono in maestria e in bellezza. Così ha egli spartite le grazie, dando alle chiocciole, come all’albero della cannella, l’aver di prezioso solo la scorza; così a’ pavoni le bellissime penne, a’ rosignuoli il soavissimo canto: ma a questi il vestito rustico, a quegli il grido spiacevole. E di noi altresì, a ben considerarci, si avvera. Chi più e chi meno, come meglio è paruto a quello che tutto fa e dispensa a peso, a numero e a misura: ma né niuno ha ogni bene (ché ciò è sol de’ beati), né niun di tutti è privo (ché ciò avvien sol ne’ dannati). Quanti, come il Socrate d’Alcibiade, nell’esteriore apparenza un Sileno per le deformi fattezze e dispiacevole aria del volto, sotto quella maschera d’uomo selvaggio nascondono un’anima angelica, una mente che sola più di mille altre nella sublimità dell’ingegno partecipa del divino? Al contrario, quanti han tutto il lor bello in faccia o tutto il lor buono in mostra: la nobiltà, l’avvenenza, la leggiadria, il ricco abito, il titolo, il corteggio; splendon di fuori e dentro son legni marci.»

Riscontriamo una analogia evidente tra la prosa analitica sulla chiocciola di Daniello Bartoli con la descrizione altrettanto analitica che Paul Valéry conduce in un suo brano in prosa L’uomo e la conchiglia,
Perché il testo di Bartoli può essere considerato una sorta di manifesto del Barocco?
a) Perché il linguaggio della prosa si fa analitico, tanto da proporsi come osservazione o indagine scientifica (prassi usuale negli autori barocchi: il loro linguaggio trasmoda dal proprio genere, sconfinando radicalmente nella pluralità e nella molteplicità
b) Perché ogni parola, ogni immagine ivi espresse, ci modellano continuamente la forma barocca, tanto da concretizzarci visivamente sia il movimento plastico che lo spazio architettonico. Infatti, nel leggere questo brano non ci sembra di ripercorrere virtualmente -ad esempio- il Baldacchino di San Pietro (1624-1633) del Bernini, o la Cappella della Santa Sindone (1668-1694) del Guarini?
c) Perché nella forma estetica e nella struttura geometrica della chiocciola analizzata da Bartoli sono riscontrabili la poetica di tutto il Barocco, la bizzarria delle invenzioni, la varietà degli avvolgimenti, le capricciose forme.
Possiamo, con cognizione di causa, considerare il testo un Manifesto del Barocco che, inoltre, anche per la maniera allegorica e creativa con cui è stato concepito, non fa che anticipare palesamente il Manifesto avanguardistico.

Contro il bembismo

La tendenza alla canonizzazione degli stilemi petrarcheschi diventa canone assoluto attraverso la teorizzazione di Pietro Bembo.
Da questo momento nei petrarchisti monolinguismo e fissità tematica prevarranno. Al contrario il linguaggio pluralistico del Barocco si contrappone alla scarsezza linguistica e alla pochezza di idee nella scelta delle tematiche poetiche del petrarchismo. Dirà a ragione Benedetto Croce, a proposito degli Asolani di Pietro Bembo che questa opera sviluppa «una delle molte teorie dell’amore che si ebbero nel Cinquecento e delle più deboli e pallide», e non ricusa di dire che trova quella poesia pedantesca. Al giudizio di Croce noi aggiungiamo (e ciò valga per tutti i petrarchisti) che la lirica di Bembo rivela: pedantesca cavillosità, formalismo da sofistico grammaticastro, rigorismo pieno di noiosaggini e grettezza. A legittimazione di ciò, riportiamo alcuni versi presi da diversi suoi sonetti, in cui la pedantesca ricorrenza di lagrime e pianto non fa che denotare anche povertà di idee e ridondamento di generica superficialità, nonché ipocrisia, poiché chi si lamenta è un facoltoso cardinale a cui mal si addicono i versi rubati al Petrarca: nudo e peregrino/vo misurando i poggi e le mie pene.

I
Piansi e cantai lo strazio e l’aspra guerra,

VII
et ogni mio piacer rivolto in pianto.

IX
Solingo augello, se piangendo vai
(…)
meco ne ven, che piango anco la mia:
(…)
Gli occhi bagnati porto e ‘l viso chino

X
s’han qualche dolci noie e dolci pianti.
(…)
le lagrime son tali e i dolor tanti,

XI
a me, perch’io mi strugga e pianto e duoli
(…)
Dolor il ciba, e di lagrime bagna
(…)
e perché non più tosto piagni e taci?

XVII
Ma non perviene a la mia donna il pianto,

XXVI
forse averrà, perch’io pianga i miei danni
(…)
altro che pianto e duol nulla m’avanza.
(…)
uscì doglioso e lamentevol pianto,
(…)
per tutto, ove ‘l suo mar sospira e piagne,
(…)
me di lagrime albergo e di sospiri

XXVII
a te non si conven doglia né pianto,

XXVIII
In questa piango, e poi ch’al mio riposo

XXIX
che ‘l ciel m’ha tolto, a lagrimar ritorno:

XXX
per cui d’amaro pianto il cor si bagna;

XXXI
più giù qui, dov’io piango, e me risguarda;

XXXII
la tua morte piangendo e la mia vita.
(…)
che pur che ‘l cor di lagrime trabocchi,
(…)
e di’, del pianto molle, ovunque arrive?:

XXXIV
col pianto raddoppiaste il mio languire.
(…)
e, che ‘l gran pianto non distempre il core,

Ma la sclerotica pedanteria del Bembo, non si fermerà a questi soli esempi. La sua ristrettezza di idee, oserà andare molto oltre.
Ricordate il Petrarca « i più deserti campi Vo mesurando a passi tardi e lenti »? son. Solo e pensoso, vv. 1-2, ebbene, il Bembo non si limiterà soltanto a imitarlo:

IX
Privo in tutto son io d’ogni mio bene,
e nudo e grave e solo e peregrino
vo misurando i campi e le mie Pene.

ma, con acume e intuito, arriverà persino a imitare se stesso dopo aver plagiato il Petrarca: son. Solingo augello, v. 11: «Vo misurando i campi e le mie pene». Nell’XI sonetto, infatti, egli riscriverà ciò che già aveva scritto nel IX, sostituendo -con genialità e perspicacia d’intelletto- la parola “campi” con “poggi”. E vi pare poca cosa nell’esser riuscito in questo arduo intento?

XI
Casso e privo son io d’ogni mio bene,
che sel portò lo mio avaro destino;
e, come vedi, nudo e peregrino
vo misurando i poggi e le mie pene.

E ancora: Petrarca scrive: «Che mi conforte ad altro ch’a trar guai» canz. Sì è debile il filo, v. 96; Bembo replica:

IX
Ma tu la tua forse oggi troverai;
io la mia quando? e tu pur tuttavia
ti stai nel verde; i’ fuggo indi,
ove sia chi mi conforte ad altro, ch’a trar guai.

Petrarca scrive: «Certo, cristallo o vetro Non mostrò mai di fore Nascosto altro colore…» canz. Si è debile il filo, vv. 57-59; Bembo replica:

XXVI
Perso, bianco o vermiglio
color non mostrò mai vetro, né fonte
cosi puro il suo vago erboso fondo…

Eppure, codesta limitatezza linguistica, contenutistica, non suscitò avversione né in Antonio Muratori né in Gian Vincenzo Gravina, tant’è che l’uno affermerà: «Ora, generalmente parlando, i poeti di quel secolo ebbero gusto sano, scrissero con leggiadria, adoperarono pensieri profondi, nobili, naturali, ed empierono di buon sugo i lor componimenti. (…) Il secolo seguente dal 1500 insino al 1600 fu senza dubbio il più fortunato per l’italica poesia, essendo questa, per così dire, rinata e giunta ad incredibile gloria in ogni sorte di componimenti. A Pietro Bembo, che fu poi cardinale, l’Italia è principalmente obbligata per sì gran beneficio. Non solamente la lingua nostra per cura sua tornò a fiorire più che ne’ tempi andati, ma il gusto ancor del Petrarca tornò a regnare negli ingegni italiani».
E l’altro dirà: «Potè questo genere di poesia ripigliar colle mani del Bembo la cetra del Petrarca». Come se il fatto di riprender in mano la cetra del Petrarca, anziché inventarsi nuovi stili e arricchire i propri versi con nuove e inusitate immagini, fosse l’esempio più geniale che si potesse pretendere da un poeta.
La spietata invettiva di Giordano Bruno contro i petrarchisti
Contro codesta genia di poeti Giordano Bruno impavidamente dichiara: «non son altro che vermi, che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per rodere, insporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi render celebri per propria virtude ed ingegno, cercano di mettersi avanti o a dritto o a torto, per altrui vizio ed errore».

(…)