la parola non basta (saggio presente nel testo)

da ‘nuove scritture’ (d’ambrosio editore, milano 2005)
di gaetano delli santi

la parola presa dalla strada
Per poter far meglio aderire il discorso a un fatto fresco di giornata, colto fra l’enfasi gergale di frappatori (fanfaroni) e pinchelloni (scimuniti), nel bel mezzo di un carnafaù strepitante e di bettole sbaccaneggianti, Pietro Aretino crea un suo dizionario, siamo alla costruzione di un linguaggio babelico ampio e ben disteso: l’uomo canaglia è chiamato anfusaglia; l’uomo istrione o patetico per il suo scarso cervello arlotto; l’uomo giovialone e stupido ballocco; il ganzo toscano, l’innamorato (di cui oggi i ragazzi direbbero perduto perso) è il bardassone; la donna sfrontata e impudica è galluta; l’uomo bacchettone e bizzochero è chiepino; l’uomo borioso, vanaglorioso è il fumoso; vecchia dalla pelle incartapecorita è la grimma; la donna ammaliata dall’amore è la guasta; l’uomo scimunito è l’infarina pastinache; l’uomo semplicione, tendente alla stupidezza è il menda squarci; «bagattino (…) così si dice a gran satrapi, degni di cotal titolo…».
Per Aretino la parola è materiale concreto, un dettaglio preso dai magazzini del reale, plastico, modellabile, non civilizzato dal decoro petrarchista, capace di rispondere a tutte lettere, chiaro e tondo, con ironia e sarcasmo alla svenevolezza leziosa e fittizia di un linguaggio affetto dal culto della tradizione, dando fuoco alla girandola del suo dissacrante plurilinguismo:
«…non avrei avuto ardire di pensare, non che di scrivere, (…) se non credessi che la fiamma de la mia penna di fuoco, dovesse purgare le macchie disoneste…».

il linguaggio babelico contro l’assolutismo del Verbo
La parola è senza dubbio ciò che genera più forza immaginativa nel mondo della cerebralità e passionalità umana. La parola ha così tanta forza che, tramite il suo vigore sonoro, la sua tensione semantica e l’energia del suo significato può abbassare ed elevare, avvilire e nobilitare, involgarire o ingentilire, de-sublimare o sublimare. La parola è così tanto rigogliosa di risorse che può da sola trasformare un uomo intrepido e coraggioso in un uomo vile e spregevolmente codardo, e viceversa. La parola può spaventare e incutere timore; può disgustare; può descrivere intensamente un’esperienza vissuta; può snervare e fiaccare oppure corroborare e ringagliardire gli animi. La parola può anche offendere a morte, indurre al suicidio, può ex abrupto vanificare tutto ciò per cui un individuo ha edificato, tentando di innalzarsi al di sopra della bassa statura della propria quotidianità; può uccidere. La parola può mentire e indurre a mentire; può fare del brutto il bello e del bello il brutto. Non v’è pensiero o concetto, giudizio o congettura che non possano dalla parola esser stravolti o esser affollati di bei propositi o esser deviati su meschini o micidiali prefiggimenti. Con la parola si ferisce, si condanna a morte, si fa soffrire, si fa gioire, si fa cattiva propaganda, si dissemina zizzania, si calunnia, si racconta il falso, si divulgano ideologie sterminatrici, si adultera, si travisa, si manipola, si deforma, si simula. La parola può far sorridere anche l’uomo più infelice della terra o far piangere l’uomo più felice della terra. Il potere della parola è dunque immensurabile. Non fu forse a causa di questo potere che Dio decise di farsi Verbo?
La lingua maledetta (l’incagliamento del linguaggio in idiomi resi impuri e corrotti dal multilinguismo) nasce allegoricamente dal peccato originale, e si estende smisuratamente sino all’abbattimento della Torre di Babele. Il linguaggio adamitico -riconducibile al Primo uomo, Adamo- è la metafora del linguaggio originario, come Unità omogenea. Linguaggio, dunque, unico e parziale, conformato a un solo Essere individuale, assoluto e irripetibile, preordinato da Dio secondo le regole sancite dal proprio Verbo. Il linguaggio decretato dal Verbo di Dio, impone all’origine un assetto linguistico in piena armonia con la natura del Primo uomo. La sua struttura grammaticale e sintattica, rinvia concettualmente a ciò che sarebbe naturale -perché imposto da Dio-, ordinario, eletto, disciplinato, regolato, acconcio a collocare l’uomo nell’ordinamento universale da Dio creato. Ma, per poter restare nelle grazie di Dio, Adamo non avrebbe dovuto disobbedire alle sue regole, infrangere le sue leggi. Il linguaggio adamitico era, all’esordio dell’uomo, linguaggio che dipendeva dalle imposizioni di Dio. Per antonomasia è: linguaggio sottomesso a un regolamento, assoggettato a un regime che disciplina alla formalità, alla misura, alla moderazione. Cosicché, il Primo uomo avrebbe dovuto, per poter conservare il linguaggio fatto a sua misura e somiglianza, restare ligio seguace di Dio, abbandonarsi alla sua sudditanza, cibarsi di servilismo e subordinazione. Ma Adamo infrangerà la Legge di Dio: non si accontenta di esistere cibandosi solo di ciò che Dio gli ha imposto; vuole portare altro cibo alla propria bocca, vuole pigliar pasto con tutto ciò che non conosce, vuole torre un boccone ai segreti di Dio. Sarà, a causa di ciò, castigato da Dio. Di qui il peccato originale. L’uomo che si pasceva di serenità e di quietudine, rassegnato all’imperturbabilità dei sensi, tranquillizzato da un animo in riposo, tutto finalizzato alla pace e pienezza del proprio io, si ritrova definitivamente cacciato dal Paradiso. Condannato a errare in un mondo che sino a quel momento gli era restato sconosciuto, perché vietato dal volere di Dio, si imbatterà nelle vicissitudini dell’esistenza: modellerà gli avvenimenti del mondo trasgredendo continuamente le regole di Dio. Cosicché, il suo linguaggio assumerà connotazioni strutturali e lingustiche che hanno a che vedere più con la lingua del caos che dell’ordine ordinatore di tutto.
«É evidente che la Terra -afferma Julius Sperber- originariamente creata da Dio fosse del tutto compiuta e perfetta e anche uguale alla natura e alla virtù della pietra filosofale (…). Quando l’uomo cadde nel peccato originale, Dio si infuriò e maledisse la rossa terra (Adamo deriva dall’ebraico: Adamah, “terra rossa”. Questo dato veniva interpretato come un’allusione al lapis), distrusse la sua innata proporzione, convertì l’omogeneità in eterogeneità e la trasformò sconvolgendo gli elementi in un’impura confluenza della materia: ne derivarono la corruzione e la morte.» (1)
Con la modernità, la parola non basta più per dire ciò che è il mondo. L’antico sogno, che si protrae sino all’illuminismo, di ottenere una perfetta congruenza tra la parola e la cosa, decade. Il verbo, da Mosé associato all’atto generativo di Dio, degenera. Non assoggettandosi più all’ordine di Dio, il verbo violenta se stesso divenendo l’impersonificazione della corruzione umana: nasce la babele dei linguaggi:
«La terra era tutta d’una sola lingua e d’una sola parlata. (…) Ma il Signore discese per veder la città e la torre che i figli di Adamo stavano edificando, e disse: «Ecco, è un popolo solo, ed ha una lingua sola per tutti; hanno cominciato a far questo lavoro, né desisteranno dal loro pensiero sinché non l’abbiano condotto a termine. Andiamo dunque, discendiamo e confondiamo ivi le loro lingue, così che nessuno più comprenda la parola del prossimo suo». Così li spartì il Signore da quel luogo per tutta la terra, e cessarono di edificar la città. Perciò fu chiamato quel luogo Babele, perché ivi fu confuso il parlare di tutti gli uomini; e di lì li disperse il Signore sulla faccia di tutto il mondo». ( 2)
Col peccato originale, l’uomo si condanna a cercare, finché vivrà, la parola che più lo rappresenti: la parola ereditata dal Verbo di Dio infatti non basta.
Ci si rende conto che con la parola ereditata non è mai stato possibile costruire un ordine assoluto, poiché non v’è ordine assoluto né nella natura né nella natura delle cose: infiniti sono gli ordini che regolano l’ordine-caos universale.
Eppure, il desiderio utopico di creare col verbo un linguaggio capace di restituire un ipotetico ordine del reale, ordinandolo, col lume della ragione, con parole che corrispondessero perfettamente alla cosa da essa nominata, non è mai, attraverso i secoli, venuto meno. Persino l’intellettuale rinascimentale si lascerà stregare da questo immane desiderio.
«C’è una nota nel manoscritto I -ci dice Gombrich- databile attorno agli anni 1497-99, in cui Leonardo non fa che elencare un numero incredibile di parole che si possono impiegare per descrivere il flusso dell’acqua… (…) Non credo si possano avere dubbi sull’influenza che il concetto aristotelico della scienza come inventario sistematico del mondo esercitò su Leonardo nella stesura di questi schemi. Egli vuole classificare i vortici come uno zoologo classifica le specie animali». (3)
I movimenti dell’acqua appariranno a Leonardo infiniti, invano di conseguenza risultò il suo tentativo di catalogarli con parole che servissero in parte a restituire l’effetto babelico di quei movimenti:
«Sommergere, s’intende le cose ch’entrano sotto l’acque. Intersegazione d’acque, fia quando l’un fiume sega l’altro. Risaltazione, circolazione, revoluzione, ravvoltamento, raggiramento, sommergimento, surgimento, declinazione, evoluzione, cavamento, consumamento, percussione, ruinamento, discenso, impetuità, retrosi, urtamenti, confregazioni, ondazioni, rigamenti, bollimenti, ricascamenti, ritardamenti, scatorire, versare, arriversciamenti, riattuffamenti, serpeggianti, rigore, mormorii, strepidi, ringorare, ricalcitrare, frusso e refrusso, ruine, conquassamenti, balatri, spelonche delle ripe, revertigine, precipizii, reversciamenti, tomulto, confusioni, ruine tempestose, equazioni, egualità, arazione di pietre, urtamento, bollori, sommergimenti dell’onde superficiali, retardamenti, rompimenti, dividimenti, aprimenti, celerità, veemenzia, furiosità, impetuosità, concorso, declinazione, commistamento, revoluzione, cascamento, sbalzamento, conrusione d’argine, confuscamenti». (4)
Ci si rende conto che neppure lo sforzo di impiegare un’infinità di parole, per tentare di rendere l’idea dell’illimitato caos della natura, è servito a rendere, sia pure lontanamente, l’espressività di una natura fatta di innumerevoli ordini che a loro volta possiedono in sé altri innumerevoli ordini… e così via.
All’epoca dei Lumi, il desiderio di ordinare, classificare, numerare, stabilire, sistemare diventa sempre più urgente, costituendone la caratteristica peculiare dell’epoca stessa. Nascono le Enciclopedie che, nell’organizzazione, richiedono un metodo scientifico interdisciplinare. Persino il letterato, che vi prendesse parte alla compilazione, era portato inevitabilmente a muoversi, snaturando la tradizione che lo vorrebbe dedito solo alla letteratura, seguendo la linea dell’interdisciplinarietà: «L’essere veramente letterano porta di sua natura una tale Enciclopedia, per mezzo di cui le cognizioni dell’intelletto benché spettanti a diverse scienze ed arti distinte, richiedono fra se stesse una certa subalternazione e dipendenza, si vengono come a dar mano e a vicendevolmente perfezionarsi.» (5)
Di qui l’Enciclopedia: campo sempre aperto in cui accogliere una miriade di saperi e di linguaggi chiamati a esporre le loro ricerche, scoperte e invenzioni; mai sazie di scoprire e di conoscere; sempre in evoluzione; lungi dall’intenzione di pretendere verità assolute o un ordine assoluto.
Il linguaggio babelico è dunque interrogazione, ricerca avida di conoscere, infierisce su ogni ordine antropocentrico che sia soddisfatto del proprio equilibrio e della propria resistenza all’armonia idealizzata e artificialmente idealizzante. Non condivide nessuna tensione espressiva e formale che provenga dalla prevaricazione di un ordine divino: non vi sono verità assolute a cui far riferimento, non v’è nulla di compiuto, tutto è sempre da costruire-ricostruire nella tensione continua di gestire la ricerca con un processo mentale speculativo.
Il linguaggio babelico si muove nell’accidente, nell’inadeguatezza espressiva della relativizzazione dell’esistente, nell’insondabilità della tragedia umana.
Se col Verbo di Dio, l’uomo mirava alla concezione di una forma che fosse all’altezza di quelle create da Dio, capace di imporre un ordine assoluto, metaforicamente concepito come realizzazione armonica della Creazione, il linguaggio babelico si attrezza contro la realizzazione di un ordine assoluto, non è per impersonificare nessun immaginario armonicistico e ottimistico, ma è per l’imperfezione dovuta alla contingenza di un pluralismo linguistico, più pertinente all’inventario delle innumerabili cose del mondo e alla biodiversità di collettività, che alla privatizzazione dell’Io e alla sua monoteistica morale.
Il linguaggio babelico è l’obiezione al linguaggio di Dio e al suo controllo, in quanto non può esservi un ordine dettato da un solo punto di vista. Il relativismo è condizione intrinseca dell’uomo:
«…ciascuno chiama bene quello che desidera avvenga, e male quello da cui rifugge. Quindi, per la diversità delle passioni, accade che l’uno chiami bene quello che l’altro chiama male; e lo stesso uomo chiami ora bene quello che presto chiamerà male; e di una stessa cosa, dica che è buona, in rapporto a se stesso, e cattiva, in rapporto a un altro». (6)
Il linguaggio babelico è il luogo in cui la parola nega persino se stessa e il suo significato per divenire piazza desiderosa di intrattenere in sé contraddizioni d’ogni tipo, dinamiche sociali in movimento, la contingenza dei significati in transito, l’accumulo di entità umane impigliate nei detriti del quotidiano.
Cosicché, il linguaggio babelico riportato alle arti non bazzica, come il linguaggio classicistico, i luoghi olimpici di dottrine assolutilizzate dall’onnipotenza dell’Io resosi simile all’onnipotenza di Dio, non è totalitarismo di un linguaggio contrassegnato dalla brama di assoggettare tutto alle proprie regole, no! il linguaggio babelico non contribuisce all’affermazione dogmatica del linguaggio eletto da una razza eletta, è disintegrazione di ogni modalità concettuale mossa da dottrine assolutistiche, è presenza sconsolante e inquietante di un presente non radicato né su certezze, né sull’anestetizzazione di un linguaggio di massa strumentalizzzato, né sull’automatismo linguistico ed estetico imposto da una tradizione predominante.

il linguaggio babelico nelle espressioni dell’Arte
Da che mondo è mondo, l’espressione umana attraverso i secoli non ha fatto altro che fertilizzare le proprie potenzialità creatrici tramite un’enérgeia che si manifesta in forme di comunicazione sperimentale progressista che mai è rimasta chiusa in un principio estetico conseguito una volta per tutte.
Ma che cosa si intende per espressione? Espressione è comunicare, formulare, dare a intendere un pensiero, un concetto, un’immagine per mezzo di una struttura linguistica effettuata di proposito, fatta con intenzione, premeditata. Il linguaggio, perché riesca ad esprimersi, deve con tutti i mezzi che gli sono propri, far scelta di elementi segnici a seconda di ciò che deve significare, predestinando la sua scelta alla composizione di un congegno linguistico che esaurientemente frutti al meglio il pensiero di chi intenda esprimersi. L’espressione linguistica in senso lato (musicale, artistica, letteraria, ecc.) ha bisogno, per comunicare efficacemente, che gli ingredienti che la costituiscono (contenuti strutturali, sintattici, grammaticali, estetici e di significazione) vengano spremuti e orchestrati per trasmettere il messaggio. Non a caso usiamo il verbo spremere: expressio-onis in latino assume il singificato di spremitura; da intedersi qui, far sprizzare il succo, sfruttare al massimo le potenzialità di un linguaggio perché arrivi a esprimersi efficacemente con forza e vigore; cavar senso, estraendo dal linguaggio tutto il suo dinamismo espressivo.
Affinché un linguaggio esprima al meglio il proprio pensiero, occorre che si rinnovi continuamente, che getti alle ortiche le sue regole fisse, che si renda disponibile a evolversi lasciandosi penetrare dal vissuto dell’epoca in cui appartiene.
«L’uomo, -afferma Benedetto Croce- nel parlare, non ubbidisce alle leggi fonetiche, ma alla legge dello spirito estetico, che gli fa trovare volta per volta l’espressione adatta di quel che gli si agita nell’animo: espressione sempre nuova, perché il sentimento da esprimere è sempre nuovo.»
Espandersi pluralisticamente, per il linguaggio espressivo, come per quello scientifico, è l’elemento primo da cui prendere idee idonee a creare, è il meccanismo propulsore con cui equipaggiare il linguaggio con una attrezzzatura linguistica congrua allo sviluppo sociale in atto. Sottrarsi all’andamento naturale della crescita, vuol dire prestare obbedienza a un pensiero fermo su se stesso, bloccato passivamente su quanto è stato ed è in base a ciò che è già stato.

il nuovo come rifiuto della canonizzazione e del principio dell’imitazione
Ne La decadenza della menzogna, Oscar Wilde afferma: «Soltanto quello che è moderno non diviene mai antiquato». Volendo con ciò dire «più un’arte è imitativa, meno essa ci rappresenta lo spirito della sua epoca». (7)
Prima regola dell’arte, diviene dunque per i contemporanei la non imitazione aristotelica della natura. Bisogna consentire all’arte di pensarsi e ripensarsi. Non deve rimanere attaccata al modello aristotelico, impegnarsi cioè per la realizzazione di una brutta copia della natura.
Persino Foscolo sarà su questa posizione integerrimo: «…quanto alla conseguenza, “che la poesia non è che imitazione della natura”, noi la crediamo più falsa che vera». (8)
E più avanti dirà: «L’immaginazione del pittore e dello scultore, e più assai l’immaginazione del poeta, agisce costantemente per via d’astrazioni e d’addizioni. Infatti astrae tutto quello che esistendo in natura nuoce alla perfezione ideale, ed aggiunge quanto può conferire alla sublimità e alla bellezza, e sopra tutto alla novità». (9)
Foscolo ci dice insomma che il linguaggio espressivo è più vicino a quello dell’astrazione matematica che a quello di una copia estetizzata della natura: astrarre e addizionare è ciò che l’arte fa per riuscire ad essere ciò che vorrebbe essere.
Pensiero progressista questo, che ritroviamo spesso anche in Wilde: «Lo spirito di un’epoca può trovare l’espressione migliore nelle arti ideali astratte, perché lo spirito stesso è astratto e ideale». (10)
Notare come all’astrarre e all’addizionare non vi sia stato minimamente associato il sottrarre. Se addizionare ha valenza col sommare, aggregare, associare, congiungere, interpolare, apporre, aggiungere piuttosto che sottrarre non aggiungendo, ciò avviene perché, per dirla ancora con Wilde, «l’obiettivo dell’arte non è la verità semplice, ma la bellezza complessa. (…) L’arte stessa è in realtà una forma di esagerazione; e la scelta, che è lo spirito stesso dell’arte, non è niente di più di una maniera intensificata di super-enfasi». (11)
Astrarre e addizionare è già un’operazione di per sé complessa, perché richiede per realizzarsi la fantasia, e poiché «La fantasia è essenzialmente creativa, e cerca sempre una forma nuova» (12) , l’arte, nel rinnovarsi a passo coi tempi, non può che amplificare la propria complessità: astrarre e addizionare è l’operazione minima che i molteplici aspetti della vita ci richiedono per la realizzazione di un linguaggio espressivo.
Per l’arte, dunque, non vi è passato a cui far ritorno, anzi caratteristica propria dell’arte è condursi nel nuovo, non desiderare mai di ritornare ai vecchi canoni, non rifiutarsi mai di spingersi oltre l’espressività estetica raggiunta dai padri.
L’arte si esprime cercando di rinnovare lo spazio in cui elaborare i propri modelli: non cerca modelli da ciò che ha già tratto, in passato, le proprie conclusioni; non si prostra davanti ad alcun mito collettivo; non accetta ciò che è stato fatto come un assioma in cui identificarsi per sviluppare una propria identità estetica; non vi sono per essa modelli archetipici su cui gettare l’ancora, su cui immobilizzarsi, paralizzzarsi.
L’orientamento dell’arte è proiettato verso la conquista di nuove forme estetiche; per far ciò è necessario che si rivolti contro i vecchi modelli, che contraddica i padri, che si confronti col suo stesso bisogno di sentirsi attiva e partecipe di un mondo in movimento, muovendosi nel potenziale del mondo a cui appartiene.
L’arte deve darci qualcosa d’altro che non sia qualcosa di già dato. La sua natura deve essere diversa dalla natura al naturale: non deve evocare ciò che di per sé è quello che è, ma rifiutando la natura per come è stata concepita, deve creare una seconda natura che arrivi a dare una nuova dimensione, assumendosi la responsabilità di condurci fuori dalla produzione del già visto, fuori da tutto ciò che continua a essere ciò che è. Per ottenere questo, l’arte deve chiedere di più a se stessa: quando la ricerca creativa non uccide le regole che le vengono imposte, muore; quando imita la natura, annoia.
«Il mondo in cui viviamo ci affatica, ci affligge e, quel che è peggio, ci annoia; però la poesia crea per noi oggetti e mondi diversi. E se imitasse fedelissimamente le cose esistenti e il mondo qual è, cesserebbe d’essere poesia, perché ci porrebbe davanti agli occhi la fredda, trista, monotona realtà. Or che necessità, che desiderio abbiamo noi di vederla dipinta e descritta, se già ne siamo assediati, volere o non volere, dì e notte?» (13)

la dittatura del passatismo
Per secoli l’arte si è mossa attraverso i suoi frigidi canoni di perfezione, di ideale, di ultimo termine, secondo il modello proposto dai trattati di Senocrate di Sicione e di Antigono di Caristo a cui Plinio il Vecchio si rifà, in cui predominava il concetto di «arti come prodotto di ispirazione divina; onde la tendenza a tipizzarne le leggi in canoni d’armonia e di ritmo, validi così per la musica e la poesia che per l’arte figurativa. A quest’ordine di leggi appartiene anche il canone policleteo della figura “tetragona”, cioè costruita secondo proporzioni numeriche di probabile origine pitagorica.» (14)
«Il classicismo può essere tranquillamente definito…: l’uomo è un animale straordinariamente fermo e limitato, la cui natura è affatto costante; da esso si può ottenere qualcosa di valido solo attraverso la tradizione e l’organizzazione.» (15)
Con la poietica romantica per la prima volta l’arte non resta più blindata nel concettualismo di forma eterna, non aspira più all’immutabilità perpetua e alla sempiternità dell’indefettibile. E «Questa è la radice di tutto il Romanticismo: l’uomo, l’ndividuo, è un’inesauribile riserva di possibilità; se sarà possibile ristrutturare la società distruggendo l’ordine oppressivo, queste possibilità potranno manifestarsi, e si otterrà il progresso. (16)
Ma la cultura dominante passatista, nonostante la rivoluzione romantica, fungeva da dittatura: ogni novità estetico-letteraria che provenisse dal resto dell’Europa o la si tacciava come linguaggio punto affine alla letteratura maiuscola, o, nel miglior dei casi, la si scimmiottava perché superficialmente recepita, o la si ignorava del tutto.
«…nella letteratura italiana era tenacissima una tradizione secolare, riportabile a quel letterato superiore che fu il Petrarca, che il romanticismo non riuscì ancora a spezzare se la ritroviamo nella sua ultima e più intensa applicazione nella poesia del Leopardi. Questa tradizione aulica, decorosa non era più sentita dal di dentro, e pesava oppressiva, non amata e pur patita, sui poeti del secondo Ottocento. In tutti, più o meno, c’è la volontà di novità e l’nsofferenza della tradizione, ma si tratta più che altro, appunto, di velleità, non di consapevoli superamenti». (17)
Anche gli scapigliati, per quanto siano stati i primi in Italia a produrre, dopo il Romanticismo, una poesia antipetrarchesca, sliricizzata, dimessa e disadorna, lungi dall’àurea tradizione classicistica, in definitiva, stando ai risultati dei loro testi poetici, non hanno fatto altro che assumere «(…) atteggiamenti pratici di impronta goffamente decadente. Perché, per mancanza di maturità, tutti i predannunziani si limitano a volere il nuovo, a fiutare, senza capirli, gli stranieri, e, in sostanza, a ribellarsi alla tradizione, equivocando contenutisticamente sul decoroso classico e sulla libertà moderna. E non hanno quindi che negativamente un senso rivoluzionario, sì che ricadono di continuo nei più ingenui romanticismi e negli schemi tradizionali malamente stravolti». (18)
Da ciò non è esente neppure Carducci: «… nel suo solido mondo poetico mancano, se non si vogliono cercare a bella posta dei frammenti falsando lo spirito dell’insieme, spunti di una nuova sensibilità, di una sensibilità che superi quella del romanticismo italiano». (19)
E sebbene il «decadentismo italiano» cominci con Gabriele D’Annunzio e Giovanni Pascoli, occorre ammettere che «… anche con questi due poeti, il decadentismo italiano è ancora limitato, stretto in un’atmosfera provinciale…». (20)
Solo coi crepuscolari nella poesia italiana fa irruzione un programma poetico che prevede, con una certa coerenza estetica e strutturale, l’annullamento della tradizione aulica con l’introduzione di uno sguardo ironico e critico sul quotidiano. La tendenza del verso a sparire in cose svalutate dell’esistente quotidiano, abbandonando definitivamente l’enfatizzazione della tradizione lirica petrarchesca, per proiettare il verso sulla temporalità di un’esperienza intimistica, mortificata da «una forma devastata da un psicologismo ossessionante», (21) con un «vocabolario… fatto di parole non raffinate esteticamente… ma adatte appunto a dare un’apparenza di sciatteria bonaria e schiva» (22) non servirà comunque al poeta crepuscolare a lasciarsi totalmente alle spalle, come lo scapigliato, quel «mediocre sentimentalismo romantico» che ritroveremo ancora in tutto il secondo ‘900. (23)
È una poesia che spesso ha del piagnucoloso, in cui risuanano afflati patetici e nostalgici, a contatto con un apatico, torbido e grossolano sentimentalismo, che si volatilizza in un delicato e commovente sguardo da qualunquista, affrancato da uno spirito imperturbabilmente flemmatico e riposato: la poesia italiana, a ben vedere, non è stata in grado, ancora una volta, di proiettare una materia verbale finalizzata ad assumere il ruolo di una coscienza sociale gravida di differenti forme linguistiche.
A contrastare la «scoratezza» e la «rinunzia» della «poetica delle piccole cose quotidiane», ci penserà dunque il Futurismo con la sua «poetica del dinamico, del violento», con la sua «prepotente accettazione della realtà» (24): si batterà per l’abolizione dell’intimismo immateriale dell’io, della sacralità della tradizione aulica, del monoteismo dell’arte classica e classicistica, dello psicologismo narrativo, sconvolgendo l’uso e il senso tradizionale del linguaggio poetico e artistico. Così le altre Avanguardie.

l’oltre dell’Arte
L’arte è fertile quando è in grado di portarci anche oltre la dimensione umana, oltre le proporzioni spaziali entro cui l’uomo mantiene la sua sensuale percezione.
Afferma Foscolo: «Il poeta, il pittore e lo scultore non imitano copiando, ma scelgono, combinano e immaginano perfette e riunite in una sola molte belle varietà che forse realmente esistono sparse e commiste a cose volgari e spiacevoli, ma che non esistono, o almeno non si veggono né perfette né riunite in natura». (25)
Apollinaire parlando del Cubismo ci chiarisce che «(…) L’arte greca aveva della bellezza una concezione puramente umana. Poneva l’uomo come misura della perfezione. L’arte dei nuovi pittori pone l’universo infinito come ideale ed è a questo ideale che si deve la nuova misura della perfezione, che permette all’artista-pittore di dare all’oggetto proporzioni conformi al grado di plasticità a cui egli vuol portarlo. Nietzsche aveva presagito la possibilità di tale arte:
«O Dioniso divino, perché mi tiri le orecchie?» domanda Arianna al suo filosofico amante in uno di quei celebri dialoghi nell’Isola di Nasso. «Io trovo nelle tue orecchie qualcosa di gradevole, Arianna; perché non sono ancora più lunghe?».
Quando Nietzsche riferisce quest’aneddoto, fa, per bocca di Dioniso, il processo all’arte greca». (26)
Il senso di un’arte che voglia uscire da se stessa per modificarsi, sta tutta nel disobbedire alle proprie regole. Le sue prestazioni formali reclamano indipendenza da ogni regola fissa e imposta, guida la propria materia verso la creazione di una forma che provenga da tutto quello che l’arte non è. Di qui il desiderio di allungare le orecchie ad Arianna se così come sono non bastano a dare una piena felicità ai sensi: la realtà non basta a renderci soddisfatti di ciò che la sua natura ci elargisce. Il senso dell’arte è tutto qui: impegnarsi nel modellare una realtà che appaghi appieno il gusto estetico delle nostre percezioni; ottenere una realtà che ci stimoli più della realtà data.
Si pensi al Cubismo che non si attiene «più alle tre dimensioni della geometria euclidea. I pittori sono stati portati naturalmente e, per così dire, intuitivamente a preoccuparsi di nuove misure possibili dello spazio che, nel linguaggio figurativo dei moderni, si indicano tutte insieme brevemente col termine “quarta dimensione”.
«(…) la quarta dimensione sarebbe generata dalle tre dimensioni conosciute: essa rappresenta l’immensità dello spazio, che si eterna in tutte le direzioni in un momento determinato. La quarta dimensione è lo spazio stesso, la dimensione dell’infinito, e conferisce plasticità agli oggetti». ( 27)
Dare all’arte la possibilità di trarre giovamento dal percorrere sentieri mai battuti, vuol dire che qualcosa d’altro (che non sia ciò che è restato seduto su se stesso) può avvenire in maniera nuova. Inoltre, essere capaci di fare dell’arte una non-arte, un’arte cioè che non resti ferma a ciò che è stata, aiuta a sfociare in una multiformità di punti di vista dinamicamente creativi.
Tutto ciò ci sembra fin troppo scontato? Se per l’arte figurativa come per quella musicale potremmo rispondere di sì, per la poesia e la letteratura in genere, in Italia, dovremmo dire assolutamente di no. Prendiamo ad esempio il Rinascimento: periodo particolarmente fiorente per le arti figurative, modello per tutta l’Europa ricchissimo di novità nel campo estetico come in quello tecnico-stilistico (ogni scuola sperimentava nuove tecniche con cui creare una nuova estetica). Ci si confrontava coi modelli antichi non per imitarli ma per superarli, si guardava indietro per meglio guardare in avanti e spingersi nel futuro.
La figura umana è pari agli oggetti che l’uomo ha per sé creato. Si pensi allo sguardo critico del Vasari che già percorreva analiticamente tutti gli oggetti che vi compaiono nel Ritratto di Leone X di Raffaello. La descrizione che ne fa, non v’è dubbio, si trasformasintetizza nella seguente metafora: sono più attratto dagli oggetti che dalla faccia ben costrutta di Leone X:
«quivi è il velluto che ha il pelo, il damasco adosso a quel papa, che suona e lustra; le pelli della fodera morbide e vive, e gli ori e le sete contraffatti sí che non colori, ma oro e seta paiono. Vi è un libro di carta pecora miniato che più vivo si mostra che la vivacità et un campanello d’argento lavorato, che non si può dire quanto è bello. Ma fra le altre cose v’è una palla della seggiola brunita e d’oro nella quale, a guisa di specchio si ribattono (tanta è la sua chiarezza) i lumi de le finestre, le spalle del papa et il rigirare delle stanze». (28)
Questo modus operandi rinascimentale anticipa uno degli elementi estetici più cari al Barocco: la dissacrazione della concezione narcisistica della raffigurazione umana.
Ma se questa era la regola rispettata all’unanimità dalle arti figurative e plastiche, non lo era per la poesia. La poesia anziché spingersi in avanti, ritorna indietro di circa due secoli per imitare il Petrarca. Se le arti figurative inventano il Rinascimento la poesia di contro inventa il Petrarchismo. Si idolàtra a tal punto Petrarca (copiandolo o rifacendosi stilisticamente e contenutisticamente ai suoi canoni) che la poesia smette di ricrearsi, non inventa nuovi stilemi, non si rinnova né esteticamente, né linguisticamente, né espressivamente.
Questo atteggiamento in Italia degenererà in una arrogante insofferenza verso ogni forma letteraria che abbia voluto svecchiarsi rinnovandosi. L’insolito, il raro, il desueto hanno sempre irritato la mentalità accademica così massicciamente presente nella nostra cultura dominante.
Afferma lucidamente a tal proposito Leopardi: «I pedanti che oggi ci contrastano la facoltà di arricchir la lingua, pigliano per pretesto ch’essa è già perfetta. Ma lo stesso contrasto facevano nel Cinquecento quand’essa si stava perfezionando, anzi nel momento ch’ella cominciavasi a perfezionare, come fece il Bembo, il quale volea che questo cominciamento fosse il togliere la facoltà di crescer mai più, e ‘l restringerla al solo Petrarca e al solo Boccaccio».
A tutt’oggi si è ancora del parere che il Manierismo e il Barocco abbiano generato una letteretura degenerata, così pure si ritiene che l’Avanguardia (unico tentativo nel ‘900 italiano di totale rinnovamento, sia nel campo estetico che in quello sociale) non sia nulla di più che un mero trastullo per chi ami trastullarsi con l’arte e la letteratura.
Tanto si è scritto contro il Manierismo, il Barocco e l’Avanguardia. Dirà il Milizia, a proposito del Barocco: «Barocco è il superlativo del bizzarro, l’eccesso del ridicolo. Il Borromini diede in delirii…». Il Croce si sforza di condurci solo a «intendere per Barocco quella perversione artistica, dominata dal bisogno dello stupefacente…», tralasciando ciò che più caratterizza il Barocco: la drammaticità della caducità della vita, le sue rune, le sue pene, la morte.
Inoltre, il linguaggio barocco già si esprimeva in una lingua sopravvinta da parole che si facevano non solo udire in tutta la loro forza sonora, ma anche toccare, annusare, sentire sinestesicamente. I sermoni, ad esempio, dovevano accendere immagini visive: le parole dovevano dar da vedere immagini vive, dovevano suscitare sensazioni forti. Quando il sermone trattava del Guidizio Divino, l’elenco delle pene di Dio, inflitte ai dannati, doveva concretamente far spavento, suscitare orrore e ribrezzo. Era la regola. Ciò serviva a spaventare i devoti -perché preventivamente non peccassero- con un linguaggio spaventevolmente raccapricciante. Il linguaggio del sermone doveva mettere paura: raggiungeva il suo scopo col mettere in scena un armamentario linguistico alquanto colorito, scolpito con immagini così tanto accese da produrre effetti visivi e olfattivi che s’appiccicavano addosso al devoto quasi a straziarlo. Spesso accadeva, durante i sermoni, che i fedeli reagissero con pianti e urli di disperazione alle parole dei sermocinatori.
L’intellettuale italiano ha sempre diffidato delle novità linguistiche e stilistiche, ha sempre fatto fatica a capire che il desiderio di spingersi alla ricerca di nuovi mondi fa parte dell’animo umano. Il pensiero ha bisogno di rinnovarsi per continuare a essere tale, di evolversi in ogni suo aspetto in ogni epoca che gli succede, pena la sua stessa morte.
Il teorico d’Arte Karel Teige, così si esprime in un suo saggio sul Futurismo del 1929: «Prima del Futurismo l’Italia era oppressa da un pesante ristagno, che si protraeva da più di mezzo secolo: l’Italia non era allora che una delle più oscure e infruttuose province del mondo intellettuale, un paese in cui ogni impulso vitale era straniero, un paese di madonne e di cimici». (29)

l’Avanguardia come gesto sociale, autocritica e linguaggio babelico
Sarà dunque il Futurismo (che avrà ripercussioni in tutta Europa e persino in Russia, tranne in Italia) che, all’insegna di un’arte radicalmente sovversiva nei riguardi di una prassi estetica legata a una consuetudine conservatrice, liberandosi dalle catene di una tradizione classicistica, rimuovendola chirurgicamente con una dinamica sinestesica fra Arte e Vita, violenterà ogni forma di linguaggio espressivo tramite la creazione di tavole parolibere e di testi pentagrammati che trasborderanno nella poesia visiva, nell’arte dei rumori (vedi Luigi Russolo per quanto concerne l’introduzione dei rumori in musica), nell’onomatopea figurata, in una scrittura lirica che trasborderà nella performance e nell’happening: la parola cioè sarà sempre scenica e teatralizzata, e si manifesterà sempre in maniera sinestesica, divenendo tattile, olfattiva, visiva e gustativa.
Il Futurismo ha escogitato un linguaggio artistico ideologico extraestetico: il linguaggio poetico non resterà più impastoiato nella codificazione letteraria, ma trasborderà in altri linguaggi per decodificare la complessità del sociale.
Con l’Avanguardia l’arte non si rifà più né alla tradizione né a se stessa. L’arte non mira più alla propria individualità, ma alla collettività,. l’arte si muove a contatto con gli innumerevoli eventi del sociale: nel farsi gesto sociale, l’arte è portata a contraddire non solo il dato di fatto, ma anche se stessa. L’istituzionalizzazione dei canoni che la presiedono viene abbattuta da essa stessa. Per la prima volta nella storia dell’arte, l’arte contraddice se stessa col mettere in crisi la sua stessa definizione, le sue regole e il suo fare.
Con l’Avanguardia, fra i buoni propositi dell’arte, non vi sono più soltanto quelli che mirano a esortarla ad abbandonare la tradizione e l’aureola della classicità, ma anche quelli di rifondarla tramite un fare che nasca dall’urgenza di agire nel vivo della vita. L’arte viene spersonalizzata dal suo io, non è più come la classicità ce l’ha imposta, ma è qualcosa che rimanda ad altro da sé: è superamento di sé in quanto partecipa alla convulsione evolutiva della vita sociale.
È una prerogativa dell’Avanguardia dare parole capaci di muoversi sulla pagina, o di essere recitate in scena con un volume di segni vocalici capaci di trasformare la parola detta in una forma scolpita in onde sonore cariche di energie visive.
La parola per l’Avanguardia deve esigere l’affermazione di sé tramite forme attive (visive e sonore) in intimo contatto con il materiale vivo del mondo. Con L’Avanguardia, la parola, pur di darsi voce, non teme di usare materiale trovato per strada. La parola per l’Avanguardia è sempre un’azione fisica che addestra il proprio corpo sonoro a emettere gesti che possono anche ferire.
«Gentile lettore, – scrive William Burroughs nel suo allucinante romanzo The Naked Lunch, Il pasto nudo, 1959) il verbo balzerà sopra di te e con gli artigli d’acciaio di un uomo leopardo, amputerà dita delle mani e dei piedi come un granchio opportunista, ti impiccherà e afferrerà il tuo liquido come un cane scrutabile, ti si avvolgerà intorno alle cosce come un gigantesco serpente bushmaster e ti inietterà ectoplasma rancido…». (30)
La parola rappresenta per l’Avanguardia (e qui non fa differenza fra quelle storiche e l’americana beat generation degli anni ‘50: Kerouac, Burroughs, Ginsberg, Corso) l’opportunità di: riversare sulle pagine il tormentato vissuto delle strade con un «caleidoscopio di vistas, miscellanee di melodie e di rumori di strada, rutti e grida di risse e lo sbattere delle saracinesche di ferro del commercio, urla di dolore e di pathos e grida puramente patiche, gatti che s’accoppiano e l’oltraggiato strepitare del pesce-gatto quando viene strappato dal suo elemento, borbottii profetici del brujo in trances da noce moscata, colli che si schiantano e mandragole urlanti, sospiri di orgasmo, eroina silenziosa come l’alba nelle celle assetate, Radio Cairo che strepita come un’asta di tabacco impazzita, e flauti del Ramadan che perquisiscono il tossicomane malato come un gentile ladro di ubriachi che nella grigia alba della sotterranea con dita delicate palpi un ubriaco per scoprire il nascosto crepitio verde…
Questa è Rivelazione e Profezia di quello che riesco a captare senza FM sulla mia radio 1920 di cristallo con antenne di liquido seminale… Vediamo Dio attraverso i nostri orifizi nel flash dell’orgasmo… Attraverso questi orifizi trasmutate il vostro corpo… La via FUORI è la via DENTRO…». (31)

l’Avanguardia adotta il linguaggio babelico
Nel linguaggio babelico non vi sono inibizioni al linguaggio di strada. Tutto l’armamentario retorico, emerso dalle voci dei sommersi, suona scandaloso e inquietante rispetto a quello massificato, perché il suo discorso risponde alla grottesca sofferenza del quotidiano e non si pone di fronte a quest’ultimo, ipocritamente, in maniera consolatoria. La parola viene stanata dai luoghi periferici, designa la necessità di funzionare come indicatore di una topologia esistenziale estrapolata dalla disperazione. Il desiderio sovrano di riportare a galla residui linguistici che appartengano all’emarginazione, legittima il linguaggio eretico e deviante con cui il soggetto sofferente si fa presente in una società che, nel mistificare la libertà, lo ha emarginato e represso.
Con l’Avanguardia la parola è sempre in ribellione con se stessa: non si accetta più per ciò che è ed è sempre stata (parola originariamente stampata sulla pagina, di cui il significato rimanda solo ed esclusivamente a se stesso). La parola può finalmente acquisire un peso, una forma cioè che si assuma su di sé un movimento segnico o una vibrazione cromatica capace di ampliarla nel significato. La parola è fruita come un discorso intersemiotico fra le arti, poiché assume nel suo corpo sonoro una costellazione di forme provenienti da «elementi più svariati». Testimonia ciò il cinema futurista:
«Nel film futurista entreranno come mezzi di espressione gli elementi più svariati: dal brano di vita reale alla chiazza di colore, dalla linea alle parole in libertà, dalla musica cromatica e plastica alla musica di oggetti. Esso sarà insomma pittura, architettura, scultura, parole in libertà, musica di colori, linee e forme, accozzo di oggetti e realtà caotizzata. Offriremo nuove ispirazioni alle ricerche dei pittori i quali tendono a sforzare i limiti del quadro. Metteremo in moto le parole in libertà che rompono i limiti della letteratura marciando verso la pittura, la musica, l’arte dei rumori e gettando un meraviglioso ponte tra la parola e l’oggetto reale». (32)
La parola visiva, non vuole rimanere in se stessa, ma uscendo all’aperto e riversandosi sulle strade del mondo, vuole parlarci di tutto ciò di cui il mondo è fatto col mostrarsi visivamente il suo pluralistico aspetto. Se ne ricava che la parola, così come ci nuota sonoramente nell’orecchio, o come si accompagna alla veste tipografica della pagina, o come rimane nascosta nel suo significato che altro non significa se non ciò che significa, non è mai bastata di per sé a dare espressività né al linguaggio a cui appartiene né a se stessa.

un antecedente della poesia visiva
Già il decadentismo letterario francese anticipò l’Avanguardia in molti aspetti: associò alla parola un colore; dette cromatismo energetico all’espressività del linguaggio; fece in modo che la parola suscitasse sensazioni tattili e visuali; suggerì, attraverso la sonorità della parola, immagini figurate; mise in crisi l’io.
Con Rimbaud ad esempio, il poeta rompe gli argini della formalità classicistica e tradizionale promuovendosi a sonatore di nuove e ignote melodie linguistiche. Il poeta è l’alchimista del Verbo: crea nuove associazioni tra parole, fonda la sovranità di un linguaggio capace di evocare suggestioni sensoriali. La parola, non più aggravata dal peso della tradizione canonizzata, evoca colori e odori, invoca immagini capaci di materializzarsi tattilmente. Le parole son fatte per sovreccitare i sensi. Associate a sembianza di formule alchemiche, ci proiettano immagini inedite, sonorità mai prima raggiunte, segretamente distillate da vocali riscontrabili con un udito rinnovato, capace di intravedere immagini da vedere e da toccare.
Il poeta-alchimista possiede il lapis philosophorum (la pietra filosofale) con il quale trasforma la parola in immagini olfattive, gustative, visive, tattili. La parola prescrive nuove immagini da ascoltare, vedere, toccare; ci esorta a uscire dalla sua mera sonorità, ci porta a spasseggiare fuori dai suoi limitati significati.
«Voglio essere poeta -scriverà Rimbaud a Georg Izambard, nel 1871-, e lavoro a rendermi Veggente». Ma per divenire veggente occorre arrivare a modellare la poesia con schioppi di immagini inusitate, girandole di parole infocate, versi di ribellione. «Si tratta di arrivare all’ignoto mediante la sdregolatezza di tutti i sensi». (34)
Il poeta «deve trovare una lingua propria». (35) In ogni parola deve entrare l’ambiente atmosferico in cui l’uomo si muove: «A suo carico sono l’umanità e perfino gli animali». (36) La lingua del poeta deve condurre a una coscienza etica universale, deve sognare e realizzare il progresso:
«Sarebbe compito del poeta definire la quantità d’ignoto che si ridesta nell’anima universale del suo tempo: egli sarebbe di più -della formulazione del proprio pensiero, della notazione della sua marcia verso il Progresso! Enormità che diverrebbe norma, assorbita da tutti, egli sarebbe veramente un moltiplicatore di progresso!». (37)
Il poeta deve calarsi con fiducia in tutto ciò che è ancora da scoprire. Deve sperare-desiderare di comunicare l’ignoto agli altri, i suoi sensi tutto devono sentire; la sua pelle tutto deve toccare: l’émpito dei linguaggi spropositati e sproporzionatissimi come
«tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; cerca egli stesso, esaurisce in se stesso tutti i veleni, per conservare soltanto le quintessenze. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il gran malato, il gran criminale, il gran maledetto, -e il sommo Sapiente!- Poiché giunge all’ignoto!». (38)
Il poeta deve consumarsi nel rendere la parola tangibile:
«…egli dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se quello che riporta da laggiù ha forma, darà forma; se è informe, darà l’informe.» ( 39)
Già Rimbaud desiderava che la parola si facesse materia sensibile, pigliasse forma, argomentasse odori, penetrasse infino ai colori per dare colori:
«Questa lingua sarà anima per l’anima, riassumendo tutto, profumi, suoni, colori, pensiero che aggancia il pensiero e tira». (40)
Ma perché la parola divenga materia capace di sprigionare una moltitudine di suggestioni, occorre chiedere
«ai poeti il nuovo, e forme e idee… (…) le invenzioni d’ignoto reclamano forme nuove». (41)
«L’eterna classicità dell’arte e la sua incompatibilità con ogni sorta di malattia spirituale» (42) viene rotta dalla ricerca spasmodica del nuovo linguaggio, non più serrato nel mero esercizio di stile o nell’aulica circonferenza di un linguaggio fine a se stesso, sovrastato dalla rigidezza di un rigore tecnico indifferente alla smensurata frammentarietà dell’esistente. Il linguaggio viene smosso da sonorità suggestive che evocano: luoghi sulfurei dell’arcaico.
Entra così nel linguaggio letterario la ricerca di una forma che corrisponda al mistero dell’universo di cui l’alchimista cerca di scardinarne la quintessenza.
Cosicché la scrittura non disdegna la messa in scena di un linguaggio proveniente da esperienze allucinogene: i sensi lasciano passare colori che vengono percepiti col tatto, odori che vengono percepiti con la vista, forme che vengono percepite mentalmente. Ed è come dire: la vista s’è fatta tatto, l’olfatto s’è fatto vista, l’udito -con cui viene recepita la sonorità della parola- s’è fatto tatto, olfatto e vista tutto insieme. Siamo all’Alchimia del verbo di Rimbaud:
«Inventai il colore delle vocali! -A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu-. Disciplinai la forma e il movimento di ogni consonante, e, con ritmi istintivi, mi lusingai d’inventare un verbo poetico accessibile, un giorno o l’altro, a tutti i sensi. Scrivevo silenzi, notti, segnavo l’inesprimibile. Fissavo vertigini.» (43)
Le parole sembrano uscite da un Dio plasmatore che a sua volta sembra uscito dallo slancio della vita. Il poeta piglia gusto a sognare un mondo nuovo, rinnovato, ricostruito con l’uso frequentissimo di un sogno delirante e utopico: «Sognavo… viaggi di scoperte di cui non esistono relazioni, repubbliche senza storia, guerre di religione represse, rivoluzioni del costume, migrazioni di razze e continenti: credevo a tutti gli incantamenti.» (44)
Vi troviamo il poeta ad abrogare le leggi del Verbo di Dio: abolisce Dio e il suo Verbo abusando di un linguaggio che gli viene dalle gioie e dalle sofferenze della vita, non più dal linguaggio impassibile ed eterno della Verità suprema. Il poeta scende dal suo Olimpo e si riversa sulle strade. Turba l’impassibilità del verbo divino, stemperando il nuovo verbo nel linguaggio babelico, dissoluto e sregolato, che lo spirito vitale dell’esistente gli largisce:
«Amai il deserto, i frutteti bruciati, le botteghe avvizzite, le bevande intiepidite. Mi strascicavo per vicoli puzzolenti e, chiusi gli occhi, mi offrivo al sole, dio di fuoco». (45)
Il poeta infrange il linguaggio poetico con l’impetuosità degli attrezzi di un vissuto che non conosce requie, che attraversa paesi e vagabonda nei visceri della velenosità dell’esistenza; profana e deflora tutto il mondo vecchiardo e senile del classicismo; víola e trasgredisce il reliquario del sentimentalismo arcadico coi propri delirî e la propria follia:
«Nessuno dei sofismi della follia, -la follia da manicomio-, fu scordato da me: potrei ripeterli tutti, ho in mano il sistema.» (46)
È la visione del poeta decadentista,
«che si basa su una nuova concezione della poesia, fondata su un preciso senso della vita». (47)
È il nuovo poeta, e concorre al materiale della vita percorrendo strade diritte e tortuose, e si adopra ad imbroccare la via maestra che conduce al mondo fantastico dell’ebbrezza e alla celebrazione dei suoi misteri:
«…seguitavo i sogni più dolenti, Ero maturo per il trapasso, e lungo una via piena di rischi la mia debolezza mi conduceva ai confini del mondo e della Cimmeria, patria d’ombra e di gorghi.» (48)
Ebbrezza ed estasi sono per egli voluttà e godimento. Il paradiso non è più raggiungibile col tanfo dell’eminenza reverendissima del tradizionalismo, con l’elegiaca retorica dell’immobilità e della quietudine, ma col smarrirsi nell’estasi allucinatoria «Più tardi spiegai i miei sofismi magici con l’allucinazione» (49), riosservando il mondo dalla sommità del suo rovesciamento:
«Mi abituai all’allucinazione semplice: vedevo indiscutibilmente una moschea al posto di un’officina, una scuola di tamburini addestrata da angeli, calessi per le vie del cielo, in fondo a un lago un salotto; mostri, misteri; un titolo di vaudeville drizzava terrori davanti a me.» (50)

il linguaggio liberato
Camminare in visioni inafferrabili, invocare l’orgia allucinatoria delle sensazioni a testimoniare una realtà in cui tutti gli elementi si compenetrano per un linguaggio babelico, avvelenare la scrittura con un linguaggio pregno di linguaggi, ha portato la parola scritta alla stupefaciente impresa di acquisire forme, colori, e irregolari musicalità, che hanno dato accrescimento di sensazioni alla percezione sensoriale.
Il linguaggio babelico si pone fuori da ogni preconcetto. È la metafora dei linguaggi liberati, è l’individuazione di una forma estetica in cui entra la molteplicità sociale, la popolazione di un mondo attivo, l’enunciazione dei concatenamenti linguistici, l’espressione di una spazialità geografica forata, attraversata, compenetrata. Il linguaggio babelico resta sempre incompiuto, è sempre da ricostruire. È la Torre di Babele che sempre crolla su se stessa, che mai giunge a formulare un linguaggio definitivo, compiutamente finito, a cui attenersi. Il suo essere è nell’esasperato tentativo di parlare con tutti i linguaggi del mondo. Il linguaggio babelico consiste: nel creare l’incompiuto, nell’istituire una forma in continua mutazione, nel combinare attraverso linguaggi altri linguaggi, nel potenziare la libertà delle parole, nel rompere i divieti, nel visualizzare la multiformità della vita…

Gaetano delli Santi

NOTE
1) Julius Sperber, in Deutsches Theatrum Chemicum II, Norimberga, 1730, in Alexander Roob, Il museo ermetico, Alchimia & Mistica, Taschen 1997 p. 165.
2) Genesi, XI, 1-5-6-7-8-9, in La Sacra Bibbia, a cura di Giuseppe Ricciotti, Salani Editori, Firenze 1958.
3) Ernest H. Gombrich, L’eredità di Apelle, Einaudi, Torino 1994, pp. 55-56-57.
4) Ibid., p. 74.
5) Bacchini, Gli autori del Giornale a’Letterati, in Giornale de’ Letterati, Parma1686, p. 1.
6) Hobbes, De cive, XIV, 17.
7) Oscar Wilde, Opere, a cura di Masolino d’Amico, A. Mondadori, milano 1979, p. 238.
8) Ugo Foscolo, Sulla lingua italiana, in Le prose, a cura di Guido Biagi, Dalle officine della società anonima notari -istituto editoriale italiano- a La Santa -Milano- 1929, VII, p. 116.
9) Ibid, p. 127.
10) Oscar Wilde, opera cit. p. 231.
11) Ibid., p. 216.
12) Ibid., p. 223.
13) Ugo Foscolo, opera cit. p. 128.
14) Lionello Venturi, Storia della critica d’arte, Einaudi, Torino 1979, p. 47.
15) Thomas E. Hulm, Meditazioni, Vallecchi, Firenze 1969, p. 99.
16) Ibid., p. 99.
17) Walter Binni, La poetica del decadentismo, Sansoni Editore, Firenze 1996, p. 28.
18) Ibid., p. 28.
19) Ibid., p. 29.
20) Ibid., p. 29.
21) Ibd., p. 122.
22) Ibid., p. 197.
23) Ibid., p. 53.
24) Ibid., p. 129.
25) Ugo Foscolo, opera cit. pp. 125-126.
26) Guillaume Apollinaire, I pittori cubisti – meditazioni estetiche, traduzione di Franca Minoia, con un chiarimento di Carlo Carrà, SE, Milano 1996, pp. 18-19.
27) Ibid., pp. 18-19.
28) G. Vasari, Vite, ed. Della Pergola -Grassi- Previtali, vol. IV, p. 89 -Vita di Raffaello-.
29) Karel Teige, F. T. Marinetti + modernismo italiano + futurismo mondiale, in Arte e ideologia 1922-1933, Einaudi, Torino 1982, p. 98.
30) William Burroughs, Il pasto nudo, Sugarco Edizioni, 1994, p. 235.
31) William Burroughs, Il pasto nudo, Sugarco Edizioni, 1994, p. 234.
32) F. T. Marinetti, Bruno Corra, E. Settimelli, Arnaldo Ginna, G. Balla, Remo Chiti, La cinematografia futurista, Manifesto futurista pubblicato nel 10 numero del giornale «L’Italia Futurista» 11 settembre 1916 – 15 novembre 1916, in Marinetti e i futuristi, a cura di Luciano De Maria, Garzanti, 1994, p. 192.
33) Arthur Rimbaud, Opere, a cura di Diana Grange Fiori, A. Mondadori, Milano 1975, p. 113.
34) Ibid., p. 449.
35) Ibid., p. 455.
36) Ibid., p. 455.
36) Ibid., p. 455.
37) Ibid., p. 454.
38) Ibid., p. 455.
39) Ibid., p. 457.
40) Ibid., pp. 457-459.
41) Walter Binni, opera cit. p. 5.
42) Rimbaud, opera cit. p. 241.
43) Ibid., p. 241.
44) Ibid., p. 247.
45) Ibid., p. 251.
46) Walter Binni, opera cit. p. 37.
47) Rimbaud, opera. cit. 251.
48) Ibid., p. 245.
49) Ibid., p. 245.
50) Ibid., p. 251.