la perversione ellittica nel linguaggio di Giordano Bruno // da Kiliagono, poligono dai mille linguaggi

kiliagono-poligono-mille-linguaggi-591aacbe-fb8c-4c6c-b9a3-1a89336f2175(da KILIAGONO, poligono dai mile linguaggi, numero ZERO, dic. 1992, all’insegna del pesce d’oro, edizioni di Wanni Scheiwiller, Milano)
di Gaetano delli Santi

Questo saggio invoca il caso, nella forma in cui il calcolo delle probabilità c’insegna a manipolarlo, solo perché si tratta deIl’unico modello matematico a disposizione di chi cerca di cogliere l’ignoto e l’incontrollabile.

(Benoit B. Mandelbrot)

i

Di Bruno si potrebbe dire che per procacciarsi idee s’era incamminato eri plein air a penetrare lo stillicidio di una luce votata agli enteroclismi, repellendo l’intenzione di erigerla nel sole.

“Ma che fo io? che penso? Son forse nemico della generazione? Ho forse in odio il sole?” (G. Bruno).

Ogni suo testo è un’iperbole poetica in cui c’è di tutto: il gavazzo di frasi segmentate dal ritmo di significati verticalizzati, l’ectoplasma di un’oscurità esibita in variazioni cromatiche centrifughe e centripete, erosioni provocanti. Attraverso ognuna d’esse incombe un bofonchiamento dì provocazioni ratificate da una ghiribizzosa sbroscia di espressioni del basso volgo:

0 porco sporco, vil, vita disutile, Ch’altro non hai che quel gruito fatuo, Col quale il cibo tu ti pensi acquirere; Gola quadruplicata da l’axungia; Dall’anteposto absorpta brodulario, Che ti prepara il sozzo coquinaro, Per canal emissario; Per pinguefarti più, vase d’ingluvie, In cotesto porcil t’intromettesti, U’ ad alto obiecto non guardi ch’al pascolo, E privo d’exercizio, Per inopia e penuria Di meglíor letto e di meglior cubícolo, Altro non fai ch’al sterco e fango involverti.

A nullo sozzo volutabro inabile, Di gola e l’uxo infirmità incurabile, Ventre che sembra di Pleiade il puteo, Abitator di fango, incola luteo; Fauce indefessa, assai vorante gutture, Ingordissima arpia, di Tizio vulture, Terra mai sazia, fuoco e vulva cupída, Orficio protenso, nare putida; Nemico al cielo, speculator terreo, Mano e piè infermo, bocca e dente ferreo, L’anima ti fu data sol per sale, A fin che non putissi: dico male?

(G. Bruno)

In Bruno geometrie labirintiche gremiscono la frase, filtrandola attraverso inquietudini che assorbono la parola per immetterla in giungle di tensioni filamentose. Ogni sua frase è combustione brutale di scatti, ipersensibilità bituminosa di metamorfosi.

E la frase è già quella rachitica tutt’ossa spregiudicata, che repelle ogni decorativo mezzuccio per far presa sul lettore. Scrittura convulsa che esprimendosi con asprume libellistico, non tollera la frase leccata? Sì! ma anche un ruggito fuori della crìtica discriminazionista espresso con parole rivoltate e scucite che turbinano moltiplicando il senso in cui spesso si attende un significato che, a causa della sua profondità, potrebbe non arrivare mai in superficie. E una scrittura sempre pronta a vellicare erogenicamente il dentro e il fuori d’ogni parola.

Come una superficie specchiante per la proiezione della bile, è la peggior nemica del professorale, in ogni frase cangia di sito, stropiccia l’immagine, profana il senso e, linguaggio furbesco, è ferocia in osso pretestuosa.

In Bruno ogni parola si muove nella frase a cercarsi, cosicché la frase non può più restituirci un significato, in essa si ha la liberazione dei significati. E l’aumento della sua profondità è progressivo, e non disdegna di lavorare il significato col cambiar pagina in ogni frase.

La sua scrittura usa cosmetici sdottrinati: filosofia dell’inespresso, poesia pillaccherosa.
Scrittura polifonica dai suoni scherzosi, seriosi, ciclopici: birbona masserizia per un rabbia liturgica. t uno scracchio in faccia al filosofo: summa di uno sputo suggestivo sputato come mezzo di edificazione della burla.

Metafora moraleggiante di una danza macabra, la sua scrittura insomma è sempre un’impervio luogo della frase limacciosa che accoglie la schola cantorum della collera:

“La collera è spuma di sangue, e la malinconia feccia, e lo sputo vapore escrementizio del ventre che in bocca si densa in licore; e pur Dio fece che servisse la collera a pungere li budelli e lo spirito irritare per cavar fuori lo sterco, e la malinconia fusse stimolo al ventre di cercar d’empirsi quando è vuoto e magnare perché non muoia l’animale, e dello sputo per umettar la lingua che parlando non si secchi e per mollificare il cibo e farlo entrare ai pori della lingua e gustarsi e per potersi trangugiare senz’affanno. Meraviglia del primo senno!” (Campanella).

ii

Il linguaggio di Bruno non passa adagiandosi per frasi obbligate, ma per punti sonori in cui le linee bisettrici, antiparallele, divergenti, discendenti e ascendenti, trasversali e oblique di un concetto durano ad essere calzanti e, a volte, hanno il senso di disperdere la frase in modo che il concetto paia esteso anche oltre se stesso. In quel concetto pensare si potrebbe dire il far brusio in polendo e assorbendo com’usano le spugne e, si può polire e assorbire, raschiando la parola per toglierla dalla sua patina usuale.

Quando nel linguaggio di Bruno ha luogo la gesticolazione sonora del brusio, le frasi si sogliono defrescare sotto forme disparate e contrarie: ci son parole che pongono recriminazioni, altre che confutano, altre che controbattono. In ogni sua parola vi è sempre conformità del brusio al concetto e il senso di essa è così bene allontanato da se stesso, che si trattiene ugualmente vicino a se stesso.

Suppongasi perciò in quel linguaggio fatta una linea che spiccandosi dal punto sia slungata sino al di fuori della superficie, ed altra linea che trasbordando per il senso della parola si estenda al di là della frase.

Ora se il “taglio fotografico” di alcune “Bagnanti” di Picasso (come quello nel “CRISTO MORTO del Mantegna di Brera), fa il prolungamento dell’immagine al di là della superficie del quadro, bramosia del quadro di conciliarsi il proseguimento dell’immagine, ci costerebbe tanto dire che Bruno ci ha anticipato Picasso?

E se leggessimo di Bruno:

“Se dalla potenza non è differente l’atto, è necessario che in quello il punto, la linea, la superficie e il corpo non differiscano: perché cossí quella linea è superficie, come la linea, movendosi, può essere superficie; cossí quella superficie è mossa ed è fatta corpo, come la superficie può muoversi e, con il suo flusso, può farsi corpo. t necessario dunque che il punto ne l’infinito non differisca dal corpo, perché il punto, scorrendo da l’esser punto, si fa linea; scorrendo da l’esser linea, si fa superficie; scorrendo da l’esser superficie, si fa corpo; il punto, dunque, perché è in potenza ad esser corpo, non differisce da l’esser corpo dove la potenza e l’atto è una medesima cosa”, non dovremmo ammettere che ci ha dato Kandinsky? Nel suo linguaggio la parola quando è “esasperata”, quando cioè è più adatta ad assolcare la frase danzando su se stessa, che a passarci sopra assopendosi su se stessa, ci dà anche Joyce.

III

Ma se al linguaggio configgonsi parole autoreferenziali da rivestire di saggezza
il senso, quello chiamasi sermone. Quando la scrittura di Bruno costeggia il ser-
mone, si accolla tutti gli uffizii necessari a spolpare la parola ed è per questo che
un suo concetto è espresso con una lirica ridotta in sistemi.

Il senso di un suo sermone dà nel suono della parola e riecheggia per tutta la frase strozzato. E si potrebbe concludere con Antonin Artaud che quel senso “è un vuoto asfissiato. Il vuoto contratto di una gola, dove la violenza stessa del rantolo ha bloccato la respirazione.”

Senso equivoco, dunque, il quale dimostra come la parola non badi all’ambiguità se non per affinarsi: senso lento a scorrere, che ha da essere (come ci suggerisce Nietzsche) “ruminato”.

Al sermone di Bruno va sempre un senso di multiforme violenza, vantaggiosa per una parola che volesse esprimere forza nell’espressione senza discompagnarla dalla forza operante di un senso sobbissato. In esso “rompendo l’ossa e cavandone le midolla, trovarete cosa da far … smascellar le simie e romper silenzio a qualsivoglia cemiterio.” (G. Bruno).

Un sermone di Bruno ci fa ascoltare la parola dal punto più basso laddove comincia la minaccia di sprofondare: circolazione ambigua del senso che dà assai più significati che l’immaginazione non potrebbe conteggiare.

In un suo sermone assistiamo allo schianto delle parole come di legno che si scommetta, profana qualsiasi “codice culturale, la cui falsa logica è deviante.”

(Barthes).

1 suoi sermoni irritano, e la loro ferocia può essere così violenta da rendere a volte insensibile chi li legge, proprio come un suono troppo acuto che non si lascia percepire.

La tessitura dei suoi sermoni è così estesa, che ci sembra manchi al tutto il debito completamento. Ma invero non è così. Un suo sermone lascia ogni giudizio pencolante perché decade da qualsiasi piatta definizione e perché è strutturato per enigmatica permissione di un estro inclemente, in cui la bizzarra quantità d’immagini va a massicciare il senso d’ogni singola parola e c’invita a compirla col lasciarci trasportare dalla sua energia.

E giacché “II discorso x come ci dice Tommaseo x non ha energia senza forza; l’energia risiede più nelle espressioni e nel tono; la forza, nelle idee e negli affetti.”, ecco Bruno darci sia l’una che l’altra coll’esercitare il pensiero per gesta, col darci una prosa lirica con impetuosità perorante.

Ogni sua parola accomuna la prosa con il sermone, il sermone con la lirica, la lirica con l’etica, l’etica con la logica.

Ed è perciò che “Le sue espressioni x scrive Hegel x assumono spesso una fisionomia torbida, confusa, allegorica di esaltazione mistica… Al grande entusiasmo intimo egli sacrifica le sue condizioni personali; esso non lo lascia riposare. Egli è, per così dire, “un cervello inquieto, che non ha saputo andar d’accordo”. Da che proveniva questa inquietudine? Egli non sapeva andar d’accordo col finito, col cattivo, col basso. Di qui la sua inquietudine.”

Di qui uno stile inquietante inclinato alle “parole infocate di spirito divino” alle quali “piacciono l’asprezze in guerra, perché lo muovono ad ira contro il nemico e inforzano”, e “se parla aspro e forte, quantunque non dica parole ingiuriose, muove a sdegno, perché lo spirito è mosso dall’aria con moti che lo sbattono e lacerano.” (Campanella).

IV

Di qui un’intrapresa dello scrivere che non si ferma a scrivere, ma fa che la paro~ la scritta acquisti più sonorità e profondità, insomma più infinitezza.

E parole rimpinze di barbarie mordente son più determinative delle “titillanti” perché, proseguendo con Campanella, “le titillanti variamente pungenti un poco, piacciono in atti amorosi, perché eccitano a trastullo.”

Le battute di spirito in un suo sermone si atteggiano a esser manovrate in scena, ad ognuna tocca recitare una parte ben precisa mirante a far schiattare di rabbia piuttosto che divertire. La destrezza e l’efficacia precettistica con cui sono scritte, sono fomentatrici, istigatorie e conturbanti come un inquirente che ha esaminato gli orrori di epuloni che imbudellano e grufolano senza ritegno.

Il sermone bruniano s’impermalisce contro grammaticastri scostanti e coticoni, reagendo con una briosità linguistica fatta di secrezione angolosa di humour furbesco e di causticità scorticante, utilizzando una propalazione dirotta di repulse con un’acrimonia guardinga e ringhiosa, esauriente nell’affronto, acerrima e sadica nel verdetto. Dà addosso per restaurare le idee morte, perché la moralità si rigeneri senza farisaismo, bigotteria, imposture e fintaggini.

Bruno tratta il sermone a sgorbie, come una superficie fratta e tonante in uno sboccare di concupiscenza non impomiciata ma cruenta, tracotante e sgarbata: iperestesia che si arronciglia, si sintetizza e si scontorce, più che acculattarsi su una omogeneità oratoriamente e demagogicamente subordinata e circoscritta.

Il sermone, fitto di schegge calunniose che lo ampliano in necrologio, o in requisitoria rantolosa ricca di alterchi verbali virulenti, consiste in un va e vieni fra l’irrisione e il motteggio. Pure esorta che l’etica schernisca la burla con intonazione mordente e icastica da lepidezza infernale, da opera buffa smartellata, strascinata per i tratturi e le calle, in mezzo alla canaglia, a intonare una cavatina slatinata, napoleggiante, scorzone e villanesCa. Sbreccato e sfracassato, volutamente incompleto di compimenti, assorto in una mistione satirica, il sermone di Bruno è salmodiato con rabbia.

Il suo sermone si serve d’una locuzione arefatta e adusta, allupata e intemperante, gagliarda e risoluta, neurastenica e losca: conflittuale come gli apoftegmi di trecentisti licenziosi o come l’idioma cantilenante e misticheggiante dei Carmina Burana. Locuzione da carnacciuto e felino impulso, a volte sconveniente, oscena e turpe, dilapidatrice e godereccia, che brama elargire tripudio a giocondità ridenti, ammonizioni audaci e leali per infrangere la ninfa motosa della chiacchiera didattica melata, leziosa e sdolcinata, mirante a evolvere in arpeggio baritoneggiante e severo l’ideologia chiesastica senza il formulario artificioso e abituale dei cattedratici.

Il suo gergo ci ricorda che l’ironia è da enunciare con capestrerie di parole dissuete nel linguaggio ufficiale, figurate, compassate e incisive e che non tutte le parole possono esser allogate nell’anfibologico.

Nell’anfibologico le parole non sono generiche e astratte, ma confacevoli e appropriate al tema trattato, congegnate con l’irrefutabilità inesorabile e burbera di chi si addentra nella superbiosa ortodossia di coloro che con la pinzoccheria dogmatizzano. L’anfibologico fa e costruisce ogni suo concetto compendiando in un linguaggio autonomo le invenzioni scultoree di tante immagini. Le parole insomma si affaccendano in esso facinorose e irruenti: dall’acromatismo rutilan~ te dei libelli, si scende dentro al dicronismo cangiante dell’invettiva. E l’invettiva bruniana disapprova, vitupera, denigra, deplora, imputa a difetto e frusta tutti, balestra minciàbbio, scherni, derisioni, turlupinature su corporazioni e ordinamenti addottrinati: esegue la scrittura con scandaloso e ignominioso machiavellico congegno contro la cattedra della madonnina infilzata.

La sua invettiva ha la facoltà di disegnare ciò che argomenta, disapprova, accusa e adombra, di inzipillare (nel senso non solo di istigare, ma anche in quello di indettare o imbestialire il lettore per insegnargli a sentire quello che deve disde~ gnare) e di frammescolare la cultura teologica con quella filosofica, la filosofica con quella morale e lirica, quella lirica coi turbamenti e i raccapricci derivategli da una plebe accademica idolatra e sottomessa.

Il suo attacco alla suppellettile scolastica è sarcastico perché si discosta dalla per~ cezione generale del beffardo designato e quindi la contumelia e il truffaldino finiscono quasi sempre nell’invettiva per esibirsi.

E nell’intelaiare corsaramente una ingegnosità disincagliata dal cruscaiolo, scarcerando una forma disimpacciata, disinvolta e schietta con indole spontanea e istintiva, appropriandosi l’arbitrio di congegnare senza beccarsi o vuotarsi il capo discervellandosi o strologando a vanvera, senza imitare la falsariga di una colascionata laureata e servile, eccepente la plenipotenza della concezione lulliana contro l’atrofia del sillogismo aristotelico, il linguaggio bruniano giunge a un’enfasi tragicomica che si serve del furbesco e del latino arlecchinescheggiato come di un metodo per entrare nell’immediatezza di un mottetto scabro e impolito e nei detti proverbiali di un idioletto inurbano e mercantile fatto di invettive che non sono mai imbastite secondo una trama precostituita, ma che si sviluppano seguendo l’infervorimento concettoso del momento sino a transustanziarsi in una diatriba lutulenta di suspense.

v

Ogni parola in Bruno preannunciando significati si riassume in flegma. Di conseguenza, poiché una sua parola non va a congiungersi a un significato qualunque, ma è scelta per alterarlo e quindi dargli un corpo tangibile e torbido, ne viene uno stile in cui il ritmo esprime un significato, che mescolandosi col significato stesso della parola, si configura in sillepsi.

Il ritmo ci conduce, in Bruno, all’immediatezza di un significato in atto ed esso, rinforzato dalla sillepsi, prima di cogliere la sua forma definitiva passa attraverso tante forme. Restiamo quindi sull’orlo della scrittura oscillando tra un significato vissuto attraverso la sillepsi e un significato vissuto attraverso il ritmo.

Se rabbiosa è la catàbasi dei ritmo e se il concetto è sagacemente portato a dialogare con la prodezza dei suoni delle parole che lo compongono, allora si ha una cromatizzazione di significati, che deru bandosi i colori a vicenda, non danno mai un concetto nettamente delimitato dal proprio significato, ma un significato ricostruito e reso significante da concetti che nel compierlo si trasformano adeguatamente per poterlo compiere.

Ogni concetto di Bruno è dato da parole che scoppiettano come tanti tizzoni ardenti nel fuoco dei propri suoni. E ogni suono di quelle parole ci convoglia visibilmente a immagini che non conducono in nessun luogo, ma solo nella voga di un accento interiore insolitamente proveniente da tanti luoghi. Ogni sua parola e sempre messa in modo da essere adatta a scavarsi, per lasciar trasparire una sinchisi inattuabile senza l’allegoria del suo ritmo. Quindi un suo concetto è qualcosa che si lascia interpretare anche attraverso il ritmo e la sinchisi. E la sinchisi porta a slargare il periodo senza recarci dinanzi a un significato assoluto: è una forma dìssona che favorisce lo sviluppo di una SCRITTURA GNòMICA.

Ed è così che lo stile di Bruno rende disprezzabile il disprezzabile, degrada l’ipocrisia alla sua dignità di erudizione pedante. Il suo stile possiede parole che danno un senso plastico al concetto: vi s’incontra il desiderio di digrossare la frase scolpendola per disegnare tridimensionalmente il suo significante.

Il suo stile manda la furia a frutto, ed è pur sempre un linguaggio ottenuto per vie oscure. E come l’oscurità è sempre ansiosa di rivedere la luce, così il suo lin~ guaggio unisce insieme varie forme d’espressione per rendersi più efficace a far luce sui suoi concetti. E se il suo linguaggio è oscuro è perché il significato è più fitto.

Il suo stile non chiede che di restringersi all’effetto a cui tendere, resistere alle obiezioni del baciucchio accademico.

Nel suo stile c’è un’oscurità pudica che si ritorce in se stessa ed è a sé una smeratezza fangosa. E qui si potrebbe aggiungere ciò che Ungaretti scrisse per Dostoevskij: “… c’è principio x diciamo principio lirico x quando non si capisce più nulla per avere capito troppo.”

L’effervescenza del suo stile è data da un tormento ottenuto con ritmi che sono al massimo bollore: linguaggio inclinante a un pensiero che scaturisce da una fermentazione di tapinòsi.

La tapinòsi è quella giusta quantità di rabbia che si spicca con parole sciatte. Ottenuta da ordigni per lo più esplosivi, la sua bassezza fa esplodere le parole tra

pensiero e pensiero sì che rimanga una piaga; porta a significare il pensiero torcendo la frase per assicurare al concetto più essenza. Ed è così che il fondiglio di ogni sua frase riluce su uno stile tagliato in tanti sberleffi, incrinati dallo sganasciarsi della bufera.

La tapinòsi in Bruno non isdegna di incrudire la parola atteggiandola in carne ed ossa, anzi, per darle maggior rilievo, la modella schiumeggiante di quarti di bove raumiliati nel loro sardonico sangue. Virtuosismi lirici, dunque, come tanti indicibili picchiettamenti musicali impigliati alla tapinòsi conficcata nell’intemperante visione misticheggiante di un odore acre d’aceto. Ogni sua frase liricheggiante dà il rugghio di una febbre ridotta all’angoscia di una lascivia di fede, tramite cui uno squarcio di speranza vigila sulla profondità di una geometrica fermezza filosofica. t una tapinòsi ottenuta con sedimentazioni di gerghi detestati: infatti parole acquarellate, nello stile di Bruno, non godettero mai spettanza di inurbamento.

t una tapinòsi che cautamente ci rimanda alle torbide foie dell’ira, tentando di risollevarsi dalle muricce di spiriti cementati, contestando il fittizio scenico dei rassegnati.

vi

Per affinità al travaglio formale barocco si potrebbe aggiungere: l’intento di effettuare una filosofia conforme al plasticismo di un contrasto architettonico, ha portato Bruno a un temperamento linguistico che non ama l’arcadismo di una cadenza profilare, ma una consonanza pressoché inornata, senza la massiccia virtuosità di trastullo mondano che sente le parole come una sfarzosa parata di angeli bandisti.

Lo stile di Bruno glorifica l’angusto fiancheggiandolo con grave schiettezza compositiva. Costruito secondo un’epurazione religiosa, lungi dall’indolente forma dei moduli filosofici è: fantasmagoria di pugna che spergiura ogni figurazione di fragranza corrente, quindi sgoticizzazione d’una letteratura frastagliata di luoghi comuni, linguaggio chiaroscurato a pantomime plebee con un’iconografia sacra e profana che documenta giuochi di forza con barbarismi a volte caravaggeschi. Il suo stile, anche se molestato da zotiche espressioni proverbiali, severamente ravvolto nella dissonanza frizzante gettata contro l’infermità di circumIocuzioni schiamazzatrici di platonismo clericale, ubbidisce a un’ironia a scorrezioni popolane, che non si svincola dalle relazioni proporzionali di un linearismo scaltro: drammatico raccoglimento di slarghi, contrasto luminoso in un marmoreo ap~ piombo di convulsa incisività sermonesca.

Un’ironia sbalzante dalle giunture di uno stile caricato d’ebbrezza altiera, che subisce un’espulsione dalla regolarità discorsiva tanto da ottenere un concetto a più spartizioni di contenuti, è senza l’abbacinio ornanistico della compostezza. Un’ironia a clangore oratorio, in arcioni su una struttura architetturale connessa a un’epologia morale contro una statuaria impotenza di cerebrale formulazione d’assialità. è lontana dai gorghi di legnosità simmetrica.

Quindi un HORTUS CONCLUSUS non uniformemente costruito, l’ironia di Bruno, ma (Misticamente inoculato nell’incrocio di controriformistiche estensioni dissacranti, contro le ripartizioni rettilinee di una tessitura ingerminata), imperniato su un’espressione di bruciature emblematiche e travagliate, quasi un’analisi dúreriana mirante a volte a rivelare l’ipercritica raffinatezza di un linguaggio virilmente rustico e verace.

Tra questa ironia si resta avvinti a una ragionante tattica linguistica scandalosa che organizza le sue reazioni, senza transigere, in forma di requisitoria contro il losco settarismo di un’oppressiva macchinazione dell’idealizzazione retorica. Effetti di torsione espressionisticamente serpeggianti di contrasti, portano le fisionomie di bugnati sorreggenti un’inquietante tono di fAstigatore delle fantocciate e degli abusi per disarticolare, con la sonorità del sarcasmo, l’ossessiva esteticità di un romanticismo emozionale. Come un sorvegliante addetto alla materializzazione di un flusso caricaturale e interrogativo, cromatismo delirante che infonde la vigoria di predilire una sentenziosa crudezza di parabola contratta, rutilante di parole reiette, una forza linguistica fuori dalle generalizzazioni, in Bruno commenta instancabilmente i bassifondi di un’iperbole che associa il contenuto all’azione.

Bruno costringe la frase a un comportamento che implica un’azione argomentativa; elimina gli automatismi per far spazio ad una ricerca linguistica empirica, a qualcosa che esibisce la propria esperienza con un ritmo che accentua il contenuto quando sottolinea storicamente un timbro che non rincara la parodia delle sue profezie. t un sistema ironico che percorre i sensi vietati, una perorazione che impara con la trasgressione ludica a creare preoccupazioni all’accettazione sottomessa di un’abituale artificiosità di persuasione.

L’ironia di Bruno fa contenuto portandoci una scrittura emotivamente scostante, dà flessibilità all’uso di un linguaggio ellittico che si comprime anziché sperdersi in proporzionate dilatazioni che contraddicono presuntuosamente l’intenzione della pagina di avere in sé più contenuti concentrati in poche parole piuttosto che discorsi invalidati da tante premesse.

E “L’ironia x ce lo dice Barthes x non è altro che l’interrogativo che il linguaggio pone al linguaggio. La nostra abitudine di dare al simbolo un orizzonte religioso o poetico ci impedisce di percepire che c’è una ironia dei simboli, un modo di mettere in questione il linguaggio mediante gli eccessi manifesti, dichiarati, del linguaggio stesso.”

E cosa fa l’ironia di Bruno se non portarci un eccessívo stile enormemente molteplice? La sua scrittura, limitata a uno spazio di estensione aperta, moltiplicata ellitticamente, dà con l’intervento di un movimento fluido una forma mordente assolutamente quadridimensionale.

Un’atmosfera di metamorfosi quadridimensionale di un grottesco a superficie scherzosa, se accompagnata dall’ironia può descrivere positivamente la prodezza di un’esasperazione linguistica scagliantesi contro i truismi sferici di una frivolezza di stile raffigurante tondeggianti girigogoli impudentemente rassegnati nella loro uniforme trama di ammannimento scenico. Grazie all’ironia ogni pa,\il,, puo corrispondere a una forza che si mantiene lontana dal pericolo di limi

tarsi alla vista, dall’“… inabilità, improporzionalità et difetto dell’umano sguar~ do.” (Bruno).

Compressa dall’ironia l’ampiezza del contenuto dimostra che le parole interìte insieme da un’attrazione reciproca portano un mutamento della “vis viva” tramite le rifrazioni di un indovinello sorvegliato da un’ambizione di comporre una frase col naturalismo di una versatilità piena di una dimensione oscillatoria.

L’ironia ci garantisce una dichiarazione disinteressata all’idolatria, e non ci illude con una liturgia ornamentale. t un’azione che porta all’irripetibile gestazione di un certame drammatico tra contenuto e forma.

VII

Non c’è staticità nell’ironia di Bruno, ma un movimento che va delineando, con l’introspezione, un delirio che si irrazionalizza coltivato da una levigatezza d’eversione. L’ironia, indice di un inconsueto costrutto aforismatico, in Bruno ela~ bora l’impertinenza di un intimismo tumultuoso, accompagnando la resipiscenza sofistica a un sermonesco soliloquio: “… togliamo da le nostre spalli la grieve soma d’errori… rimoviamo d’avanti gli nostri occhi il velo de la poca considerazione… adattiamoci a demolire le machine di errori ed edificii di perversitade che impediscono la strada ed occupano il camino… cassiamo ed annulliamo, quanto possibil fia, gli trionfi e trofei di nostri facinorosi gesti, a fine che appaia nel tribunal della giustizia verace pentimento di commessi errori. Su, su, o dei, tolgansi dal cielo queste larve, statue, figure, imagini, ritratti, processi ed istorie de nostre avarizie, libidini, furti, sdegni, dispetti ed onte. Che passe, che passe questa notte altra e fosca di nostri errori, perché la vaga aurora del nuovo giorno de la giustizia ne invita; e disponiamoci di maniera tale al sole, ch’è per uscire, che non ne discuopra così come siamo immondi. Bisogna mondare e renderci belli; non solamente noi, ma anco le nostre stanze e gli nostri tetti fia mestiero che sieno puliti e netti: doviamo interiore ed esteriormente ripurgarci. Disponiamoci, dico, prima nel cielo che intellettualmente è dentro di noi, e poi in questo sensibile che corporalmente si presenta a gli occhi. Togliemo via dal cielo de l’animo nostro l’Orsa de la difformità, la Saetta de la detrazione, l’Equicolo de la leggerezzá, il Cane de la murmurazione, la Canicola de l’adulazione. Bandiscasi da noi l’Ercole de la violenza, la Lira de la congiurazione, il Triangolo de l’impietà, il Boote de l’incostanza, il Cefeo de la durezza. Lungi da noi il Drago de l’invidia, il Cigno de l’imprudenza, la Cassiopea de la vanità, l’Andromeda de la desidia, il Perseo della vana sollecitudine. Scacciamo l’Ofiulco de la maldizione, l’Aquila de l’arroganza, il Delfino de la libidine, il Cavallo de l’impacienza, l’Idra de la concupiscenza. Togliemo da noi il Ceto de l’ingordiggia, l’Orione de la fierezza, il Fiume de le superfluitadi, la Gorgone de l’ignoranza, la lepre del vano timore. Non ne sia oltre dentro il petto l’Argoxnave de l’avarizia, la Tazza de l’insobrietà, la Libra de l’iniquità, il Cancro del mal regresso, il Capricorno de la decepzione. Non fia che ne s’avicine il Scorpio de la frode, il Centauro de la animale affezione, l’Altare de la superstizione, la Corona de la superbia, il Pesce de

Le torsioni inquietanti, tragicamente espanse dallo stile barocco, professano la fabulazione tragica di curvature compassate buttate contro volute ascendenti e discendenti che, con movimenti imperativi, depositano nello spazio una segreta fierezza di turbinamento; rituale ogniqualvolta la lacerazione segnica delle loro masse contrastatamente riconciliate ci vengono a dire: “… veggiamo tanta familiarità di un contrario con l’altro, che uno più conviene con l’altro, che il simile con il simile. ” (dallo “SPACCIO DE LA BESTIA TRIONFANTE”).

E a corollario di codesto discorso basti citare il Longhi: “ll Barocco non fa che porre in moto la massa del Rinascimento: la liscia facciata di chiesa, una tavola di pietra spessa e robusta s’incurva pressa da una forza gigante. Al cerchio, succede l’ellisse. Cerchio è staticità abbandono riposo. Ellisse è cerchio compresso, energia all’opera, movimento.”

E con ciò si potrebbe metaforicamente dire che il suo stile, proprio come l’universo descritto nella “DE LA CAUSA, PRINCIPIO E UNO”, è paragonabile a una circonferenza ellittica. Una circonferenza cioè che non subisce variazioni o deformazioni in quanto di già deformata in sé; che non può esser soggetta “di maturazione secondo qualità alcuna, né può aver contrario o diverso, che l’alteri.”

Francesco Borromini Interpretazione spaziale della pianta di S. Carlino alle Quattro Fontane

t uno stile che ha in potenza l’energia per acquisire forma, è interminabilmente l’inesauribile illimitatezza di uno spazio che può dar forma senza necessariamente divenire quella forma, può condannare la forma alla nonxforma, o la nonxforma alla forma, senza rischiare anche solo momentaneamente di divenire una forma informe o una forma informe formata.

Un pensiero dettagliatamente infinito non può formare finitamente, ma portare dettagliatamente un infinito che “… non può essere soggetto di mutazione secondo qualità alcuna, nè può aver contrario 0 diverso, che lo alteri, perché in lui è ogni cosa concorde. Non è materia, perché non è figurato nè figurabile, non è terminato nè terminabile. Non è forma, perché non informa nè figura altro, atte

so che è tutto, è massimo, è uno, è universo. Non è misurabile né misura. Non si comprende, perché non è maggior di sé. Non si è compreso, perché non è minor di sé. Non si agguaglia, perché non è altro e altro, ma uno e medesimo. Es~ sendo medesimo e uno, non ha essere ed essere; e perché non ha essere ed essere, non ha parte e parte; e per ciò che non ha parte e parte, non è composto.”

E proprio come l’ellisse che ha tanta forma quanta un sol cerchio non ne potrebbe contenere. “Questo termine di sorte che non è termine, è talmente forma che non è forma, è talmente materia che non è materia, è talmente anima che non è anima: perché è il tutto indifferentemente, e però è uno, l’universo è uno.”

E tutto codesto discorso ellittico ci porta alla seguente riflessione di Winckelmann: “La linea che descrive il bello è ellittica. Reca in sé semplicità e mutamento co~

stante. Non può venir descritta da un compasso, e muta direzione in ciascuno dei suoi punti. Ciò è facile a dirsi, ma difficile ad apprendersi: nessun’algebra potrà determinare quale linea, più o meno ellittica, modellerà le diverse parti fino a portarle alla bellezza. Ma gli antichi lo sapevano, e nelle loro figure umane, e persino nelle loro navi, la ritroviamo. Proprio come nel corpo umano nulla vi è di circolare, così nessun profilo di vascello antico descrive un semicerchiox;

Decorazione istamica Scbema grafico

la quale a sua volta ci rimanda a Bruno:

“In questo certamente non è maggiore l’altezza che la lunghezza e profondità, onde per certa similitudine si chiama, ma non è, sfera. Nella sfera, medesima cosa è lunghezza che larghezza e profondo, perché hanno medesimo termino; m~ ne l’universo medesima cosa è larghezza, lunghezza e profondo, perché medesi mamente non hanno termine e sono infinite. Se non hanno mezzo, quadrante ( altre misure, se non vi è misura, non vi e parte proporzionale, né assolutament( parte che differisca dal tutto. Perché, se vuoi dir parte de l’infinito, bisogna dirL infinito; se è infinito, concorre in un essere con il tutto: dunque l’universo è uno infinito, impartibile”, proprio come la linea ellittica che (secondo il suggerimen

to di WinckeImann) “Non può venir descritta da un compasso, e muta direzione in ciascuno dei suoi punti.”

Da ciò si può dedurre che lo stile di Bruno è ciò che ellitticamente si ispira al suo concetto sull’universo. La varietà degli stili da lui adottati “muta direzione” in ciascuna delle sua pagine fino a portarsi ad un linguaggio che sfugge ad una sferica definizione circoscritta perché è un linguaggio che “empie” i linguaggi, “inabita tutte le parti” di se stesso perché “è centro” di più linguaggi, “il quale, essendo” più linguaggi e “comprendendo in sé” tanti stili, “vien a far che” vi “sia in ogni” parola l’ostinazione di un linguaggio a voler cangiar sostanza in ogni forma.

vili

Come l’ellisse si rialza dal cerchio per rivendicare i suoi movimenti, così lo stile di Bruno portato all’ambivalenza (RinascimentoxBarocco) stacca dalla teoria dei suoi “contrarii” soprassalti per rivivificarli con una policromia di concetti e di forme stilistiche che escogitano l’acrne di un’ansia che si sottrae alla contempla~ zione monotona dell’omogeneità.

Le parole (come masse aggettanti barocche) si urtano per separarsi, si separano per congiungersi. Simili a tante pietre che rotolano spinte dalla forza motrice di un fiume, si ordinano seguendo la corrente, smaniose di sentire le loro contusioni. Provocano una struttura trasfigurata dallo sforzo di conferire un’immagine anche all’ombra equorea di un’evocazione pulviscolare. Indi esortano ad un arsenico genesiaco mimetizzante, a un’impietosa norma giuridica in cui vi si leggono condanne contro le ineluttabili ruberie di stili appiattiti e stenti. E sanno che “la costruzione difettiva o ellittica avrà… un pregio quando serva a rappresentar la fretta, la rapidità, il tumulto, il turbamento degli affetti; o vaglia a fissar lo spirito sopra un’idea dominante, o a vibrar con più forza un detto o un tratto energico e caratteristico.” (Cesarotti).

E infatti nello stile di Bruno, si è all’oggettivismo di un avvenimento capace di circolarità criptografica che si sbarazza di sé accerchiandosi d’allitterazioni esposte alla vertiginosa impazienza di interloquire con fonerni atrocemente, energicamente desacralizzanti.

Lo stile ellittico di Bruno sfoggia un linguaggio destinato coralmente a riporre lo spazio nella cavità di una sensazione visivamente infinita. Tragitta oltre la forma esausta dell’impossibilità di inquietare l’inerzia della frase, respinge dalla parola ogni statuita appetenza di cautela geometrica.

Le defiagrazioni del suo stile ellittico appuntano su un malessere tumultuoso che ci sottopone ai computi di un meccanismo filosofico che ricostruisce la circolarità fuori del metaforismo del cerchio.

Il suo stile ci fa intendere che nell’ellisse non c’è il sonno del cerchio, ma la realtà onirica delle parabole. Esse convivono con l’ellisse materializzandola in qualco

M. C. Escber Studio per la xilografia ‘Urcolo limite IV” 1960

sa che vigoreggia nei centri di una mimesi naturale e infinita, infinita “… perché

non c’è nulla dietro l’infinito,…” (jarry). Dunque l’ellisse rispetto al cerchio è reale giacché “… è ben provato che gli astri descrivono ellissi o per lo meno spirali ellittiche … ” Uarry).

L’ellisse è ciò che porta al colmo il cerchio, ed essendo contro il perbenismo geometrico del cerchio lo deforma portandolo su un tracciato di forme che si propagano fuori della staccionata chiusa di una persistente pacatezza architettonica: xè la testimonianza di una deformazione che in quanto talex, non cade nell’omofiliá scolastica della forma geometrica, ma s’eleva volubilmente a insuperbire i moViménti del cerchio costringendolo a palesare impudicamente la sua pulitezza ffièticolosa.

Ed è una realtà geometrica che portarsi oltre l’ipnotizzata stasi del cerchio sia affannoso farlo con l’ellisse. Nell’ellisse ci sono linee stralunate che non girano monotonamente su se stesse, peregrinazioni rischiose dodecafoniche di parabole che sorreggono i movimenti per la circolarità di una forma sparsa oltre uno spazio fiancheggiato da una dottrice economia dell’infinito. L’ellisse insomma esprime Gnequivocabilmente) economicamente l’infinito, perché è in grado, tramite uno spazio limitato, di darci la sensazione di uno spazio illimitato.

L’ellisse non porta linee intossicate di limiti, ma punti circumorbitarii abbastanza nudi per degenerare in cerchi “senza circonferenza, perché inestesi.” (jarry). Intensità a documentare con una lauta aggressività di linee guerrafondaie, i cripticismi populisti, stando ai margini di un respiro deformante che trasuda da una forma presa ironicamente da una simbiosi di parabole lancinanti.

Dolorosamente incontrollata, l’ellisse carica lo spazio d’incomportabili spazi, commenta l’intrepidezza di un vuoto impregiudicato, s’impregna di margini mal dissimulati da un bizzarria folgorante, smarrisce il cerchio nell’intimità di una for~ ma che si oscura facendosi inquietante.

Contro l’articolazione di una sedentaria circolarità, l’ellisse scaglia i suoi movimenti poliedrici per apportare inizi e non esaurimenti, ambizioni e aberrazioni e non ascetismo panteista: porta insomma gli archetipi dei ralenti nella spasmodica epistasi delle iterazioni cifrate.

~ l’asprezza di un cerchio paradossale che suscita l’ellisse, passaggio liberatorio di una bipolarità e non languida forma accusata di stare più che andare.

Punti d’incrocio che s’intensificano nell’inarrestabile flusso di conflitti contumeliosi e paranoici, le parabole snervanti di un’ellisse impongono trabocchetti, tentacoli sganciatisi da una gestazione onirica, e creano perplessità conniventi col cinismo di un movimento demolitore: ed è l’ascensione del fondo, fra gli assalti di un locus amoenus indispettito da linee che amoreggiano amoralmente, soffu~ se di disagi non categorizzabili nelle tematiche Canonicae di ideologismi irreparabilmente copiati.

lx

L’ellisse è una forma ottenuta dall’unione dei “contrarii”, poiché arguisce nei confronti di se stessa un’immobilità (in quanto forma compiuta) mobile (in quanto reca in sé l’enuclearsi di tensioni formali proiettanti linee incorporate in una forma suggestivamente diversa dalle loro) che punta a un’impressione di ines rabile intensificazione dell’ambiguità. Essa ha nei “contrarii” una geometri; he fa incetta delle risonanze.

1 “contrarii” sublimano l’ambiguità, schivando una intelliggibile demarcazione tra le parti formano senza mai concedersi totalmente a ciò che hanno formato e la forma che ne deriva presuppone consapevolmente la violazione di se stessa. Con ciò intendo dire che il rifacimento formale di una forma ottenuta dall’unione di forme contrarie, è ciò che elargisce alla finitezza formale la pluralità di una finitezza impavida e anticonformista, che espressivamente impregnata di geo

metrie contrastanti (aggressivamente chiarificatrici), si contrappongono per includere nelle loro contrapposizioni un’ambiguità che sia una confutazione all’esaltazione di uno squilibrio formale intimisticamente equilibrato.

1 “contrarii” si eliminano in una forma compiuta contrastatamente. Essi si incardinano con forme opposte o defluiscono entro interspazi, accordando all’intemperanza espressiva di circolare indirizzatamente inxuna pregnanza extraformale che impone al funzionalismo geometrico una forma sinesteticamente forza.

Strutture linguistiche come quelle apportate da Bruno, ci conducono all’armoniosa solidità dei “contrarii”. Quest’ultimi, senza l’austerità di una positura inetta, completano in frammenti monologanti l’intero tracciato di una filosofia sistematicamente poetica che abbozza compiutamente forme stilistiche avversative e porta alla glorificazione di un’ambiguità avveniristica culminante nell’ anticipazione del Barocco.

Il suo stile ci anticipa il Barocco in quanto aborrisce uno stile stabilito e raggelato. Il barocchismo di Bruno presceglie flussibilità metafisica di ciò che interpreta e interroga inoppugnabilmente i moti di un vuoto analiticamente anatomizzato: “Uno è il loco generale, uno il spacio immenso che chiamar possiamo liberamente vacuo; in cui vivemo e vegetemo noi. Cotal spacio lo diciamo infinito, perché non è raggione, convenienza, possibilità, senso o natura che debba finirlo; … perché non è raggione né difetto di facultà naturale, dico tanto potenza passiva quanto attiva, per la quale, come in questo spacio circa noi ne sono, medesimamente non ne sieno in tutto l’altro spacio che di natura non è differente e altro da questo.” (da “DE L’INFINITO UNIVERSO E MONDI”).

A questo punto sarebbe opportuno riportare qui la delucidazione che ci dà (sulla citazione di Bruno appena riportata) Alexandre Koyré tratta dal suo “Dal mondo chiuso all’universo infinito”:

“Lo spazio di Bruno è un vuoto, ma non è in nessun luogo realmente vuoto: è ovunque pieno di essere. Un vuoto senza nulla che lo riempia significherebbe un limite all’azione creatrice di Dio ed inoltre un peccare contro il principio di ragion sufficiente, che impedisce a Dio di trattare una parte dello spazio in modo diverso da un’altra.”

Il concetto che ci vieta di credere che esista in natura il vuoto, ci è stato elargito già dall’antica Grecia in cui si osservava che ogni moto che si appura in flussibile, se apparentemente promette di occasionare un vuoto, fattivamente lo controbilancia con uno spostamento contrapposto che va a saturare lo spazio deponendolo autonomo. Ed infatti nel Timeo di Platone, vi è segretamente custodita la prima raffigurazione fatta sullo spostamento circolatorio associato all’estrinsecazione della respirazione:

“Poiché nessun vuoto esiste, dove possa entrare alcuna cosa che si muove, e il fiato da noi è messo fuori, è chiaro a chiunque quello che segue, cioè che esso non va nel vuoto, ma caccia l’aria vicina dal luogo suo. E quest’aria cacciata spinge sempre quella vicina, e secondo questa necessità tutta l’aria respinta in giro verso il luogo, donde è uscito il fiato, éntrandovi dentro e riempendolo segue il fiato, e questo si fa tutto insieme, come ruota che gira, perché il vuoto non c’è.” E ciò ci rimanda ai valori dei buchi energetici di Moore così da Arnheim com

mentati: uno “… sguardo ai buchi di Moore ci porta a constatare che essi non sono puramente intervalli morti e vuoti tra le parti materiali della figura, ma hanno una peculiare sostanza, come fossero riempiti da una loro densa atmosfera. Tra i fattori che producono questo effetto, uno spicca particolarmente. Le superfici che delimitano le aperture sono frequentemente concave, formano contenitori cavi di spazio. Esempi impressionanti sono i fori sferici che bucano i toraci di alcune tra le figure femminili per indicare i seni; i fori circolari nelle teste a forma di anello; le valli formate dalle braccia piegate. Ogni volta che tali concavità intaccano o perforano il corpo plastico, sembra che, quasi tangibilmente, le riem_j~ìe una pozza d’aria.”

E cosa ciò ci dimostra? Ci dimostra che là dove anche un’opera d’arte ci riferisce il suo tributo alla respirazione, cioè se in essa vi è un’armonia ricca di contrasti, il vuoto che viene a crearsi durante lo spostamento degli opposti in contesa non è che energia, un’energiaxforma positiva che andando a finire in quel vuoto negativo (come in scultura il getto del gesso nel suo plasma) ci dà una forma ottenuta esaustivamente tramite l’unione e il completamento dei due elementi in conflitto.

LedouxVisione ispirata al cimitero di Chaux 1773179

Ed elementi in conflitto ci mostrano la loro forza. Ma che cos’è la forza? “La forza (ci dice Leonardo) è tutta per tutta se medesima, ed è tutta in ogni parte di sé. Forza è una virtù spirituale, una potenza invisibile, la quale è infusa, per accidental violenza, in tutti corpi stanti fori della naturale inclinazione. Forza non è altro che una virtù spirituale, una potenza invisibile, (infusa) la quale è creata e infusa, per accidental violenza, da corpi sensibili nelli insensibili, dando a essi corpi similitudine di vita; la qual vita è di maravigliosa operazione, costringendo e stramutando di sito e di forma tutte le create cose. Corre con furia a sua disfazione, e vassi difersificando mediante le cagioni. Tardità la fa grande, e prestezza la fa debole. Vive per violenza, e more per libertà. (P atta a) Trasmuta e costrigne(re) ogni corpo a mutazione di sito e di forma. Gran potenza le dà gran desiderio di morte. Sca(ch)ccia con furia ciò che s’oppone a sua ruina… abita ne’ corpi stati fori de lor naturale corso e uso… (Ne)ssuna cosa sanza lei si move. (Ne)ssuno sono o voce sanza lei si sente.”

Quindi il vuoto che nel linguaggio di Bruno sarebbe la pausa (cesura) tramite la quale è possibile intendere chiaramente la parola di “prima” e la parola di “dopo”, è senz’altro ciò che ci viene dalla forza del silenzio.

Ioannis De Sacrobosco Spbaera 1561

Il silenzio contrasta con la parola attraverso la forma (immagine) che viene inarrestabilmente a plasmarsi nello spazio (vuoto) dichiaratamente formatosi tramite lo spostamento di due azioni contrarie: da parola a parola esiste dunque un interstizio (o se si preferisce un interspazio), in cui i movimenti delle parole cadono per dare un’intonazione formale alla loro espressione, e la forma che ne deriva da quell’interstizio non è che il silenzio.

Il silenzio nella scrittura è la forza che prepara la parola allo spostamento, senza di esso la parola non potrebbe premersi sulla pagina e quindi validare la necessità di valorizzarla profanandola: entrando cioè con forza sulla sua superficie.

“Scrivere x ci suggerisce Blanchot x vuol dire farsi l’eco di ciò che non può cessare di parlare, e, proprio per questo, per divenirne l’eco, devo in un certo modo imporgli silenzio. Porto a questa parola incessante la decisione, l’autorità del mio silenzio. Rendo sensibile, con la mia silenziosa mediazione, l’affermazione inin~ terrotta, il mormorio gigantesco, sul quale il linguaggio aprendosi si fa immagine,x immaginario, profondità parlante, indistinta, pienezza che è vuoto.”

E il linguaggio di Bruno, “pienezza che è vuoto”, dirige le parole attraverso la tensione delle pause che a loro volta contengono tutta l’energia della frase: il silenzio allestisce la parola, la parola espone la frase, la frase costituisce il tentati~ vo di imprigionare la modulazione dei “contrarii” sulla pagina.

Il silenzio e la parola ci introducono nell’essenza dei “contrarii”: l’azione legitti~ mata dalle loro masse “contrarie” ci depura la forma~immagine restituendocela in una nuova formaximmagine che acquista maggior forma man mano che la osserviamo come fosse per la prima volta.

Il silenzio conferisce l’anonimità alla parola, come lo sboffoxvuoto o il sottosquadro in una scultura modellano il flusso dei volumi rinnovando la forma. E si potrebbe dire in questo caso x chiamando Arnheirn x che in Bruno il silenzio “è la convessità che produce figura”, la parola “la concavità che produce sfondo.”

x

Il linguaggio di Bruno è un insieme di biforcazioni, e ogni biforcazione non porta a nessuna certezza ideale, ma alla tensione di un moto continuo che afferma l’in~ subordinazione: rifiuto di eleggere tradizionalmente una elucidazione relegata nella sua funzione strettamente impastoiata alla dimensione asettica della spiegazione. t frammento situato in più frammenti, un’agglomerato di volumi allo scopo di interpolare segmenti e curve fino ad ottenere una dimensione iperbolica a effetti di gomitolo: “… un gomitolo di 10 cm di diametro x come ci descrive Benóit B. Mandelbrot x fatto di filo di 1 min di diametro, possiede, in modo per così dire latente, diverse dimensioni effettive distinte. Con un grado di risoluzione di 10 m, si ha un punto, quindi una figura zeroxdimensionale; con un grado di risoluzione di 10 cm, si ha una palla tridimensionale; con un grado di risoluzione di 10 mm, si ha un insieme di fili, dunque una figura unidimensionale; con un grado di risoluzione di 0,1 mm, ogni filo diventa una specie di colonna, e il tutto torna tridimensionale; con un grado di risoluzione di 0, 01 min ogni

colonna si risolve in fibre filiformi e il tutto ridiventa unidimensionale; a un livello di analisi più avanzato, il gomitolo si ripresenta sotto forma di un numero finito di atomi puntuali, e il tutto si fa di nuovo zeroxdimensionale. E via di seguito: il valore della dimensione non smette di saltellare.”

i Bruno si ha l’impressione di percorrere a saltelli uno

Nel linguaggioxgomitolo d spazio espropriato dalla sua forma. La pulsione metacorporea della sua ostensione di equilibri tramutati in accumulazione di significati esprime, nel suo modo di combinarsi, una disarticolazione di luoghi, equiprobabilità che interaccadono in un faticoso virtuosismo delle discrepanze: ricettacolo di aggregazioni concernente la connessione antisistematica tra le dilacerazioni di uno spazio che sbocca negli interstizi di un’espressione circolatoria, metaforicamente diedrica. 1 movimenti di sottoinsiemi corrispondenti (in un gomitolo) alla dislocazione di più tensioni complementari, portano all’estensione ambigua di una configura

zione sferica che riassume le linee in una smodata forza inelaborata: farnetica~ mento compositivo che compie la forma d’insieme rincorrendosi in una irregolare distribuzione di continuità dissonanti.

t una linea quella del gomitolo linguistico di Bruno che gradualmente s’impossessa d’una lunghezza sempre maggiore; man mano che s’avvolge su se stessa assume un volume enfatizzato da una forma che trabocca: “”Traboccarexxx, ecco la segreta passione liquida, che non conosce misura. Traboccare non significa la pienezza, ma il vuoto, l’eccesso, rispetto al quale il pieno è ancora in difetto.” (Blanchot). A designare la dilatazione di combinazioni di intrecci, le posture nel gomitolo non comprano espressioni standard, ma espressioni sempre più inusuali. E aggiungo, parafrasando la definizione che il psicologo Michael Argyle ci dà

sui “cambiamenti della postura” nel suo “Il corpo e il suo linguaggio”, che i cambiamenti della postura di un gomitolo si possono considerare (alla stessa stregua

di quelli di un individuo) come una specie di gesti consistenti in movimenti della linea più ampi e più lenti. “La postura occupa un posto e una funzione che sta a metà tra i gesti ed il comportamento spaziale. La postura struttura e definisce un periodo di interazione più lungo di quello di un gesto, più corto di quello di una posizione spaziale.” Un gomitolo “ripete le sue posture quando gli si pre

senta la stessa emozione o lo stesso argomento, ma il codice usato è individuale, e non può essere decodificato senza considerare l’esperienza” di quel gomitolo. Dunque, pure il linguaggio di Bruno non può essere decodificato senza considerare l’esperienza di quel linguaggio.

Ora è chiaro che se il linguaggio di Bruno muta gergo (proprio come la linea di un gomitolo muta direzione man mano che s’avvoltola su se stessa) per ogni argomento che tratta, è perché il linguaggio stesso è abituato a mutar gergo ogw qualvolta gli si presenta una nuova esperienza da vivere. E ogni esperienza porta a mutare sempre il linguaggio che l’ha vissuta.

~ un linguaggio che, coinvolgendo abusivamente la pluralità delle omologie d allusioni, ed essendo autonomo nei suoi percorsi, porta all’indeterminazione, al

la singolare impossibilità di lasciarvi accedere con il padroneggiamento della de terminazione.

La trasmigrazione delle parole si contrappone al discorso fisso di un’evanescen za rettorica, dandoci un’altra lingua: “L’altra lingua à quella che si parla da ui

luogo politicamente e ideologicamente inabitabile: luogo dell’interstizio, del margine, dell’obliquità e del passo claudicante, luogo cavaliere perché si pone attraverso, a cavallo, apre una prospettiva panoramica, e offende.” (Barthes).

Linguaggioxistante a evitare il contenimento di un tempo prolungato, sovranamente riflessione che non sosta su nessuna decisione. Un punto di partenza da molteplici punti di partenza che non conducono a nessun termine riposante, a nessun luogo consumatosi nell’atteggiamento di luogo saldo e concreto, ma all’irradiarsi incostante di più spazi in un solo spazio.

XI

La forma di un gomitolo non è sentita immediatamente, non si sente finché la linea non si sia riconosciuta.

Arte Celtica Schema costruttivo di intrecci

Il gomitolo è una forma imbevuta d’una linea rigurgitante di componimenti dispersi in direzioni.

Nel gomitolo la forma non ha bisogno del lenocinio dello spazio per essere tale, essa respira togliendosi dallo spazio.

Il gomitolo viene dagli atti di una linea che si slaccia il labirinto: indica l’onoratezza della disputa.

Il gomitolo è una forma in cui cade una linea che si ag~ira tra la chiarezza delle sue anfibologie: in esse si altera un incomodo stizzoso. E ciò che interpreta l’ulissicità di una polemica irriducibile ed emancipata, una perversione che viaggia su stravaganze d’immagini e confida i piaceri di una scrittura amplificata dal tormento.

Nel sarcasmo brutalmente formulato sulla base di un’indagine veristica che incarna con disgusto la isteroepilessia di una realtà deprimente, si assiste in Bruno ad un’amarezza lacerata, ad una intolleranza reazionaria. Ed è come se ci trovassimo difronte alle trascrizioni di un linguaggio analogico in cui vi sono fluttuazioni astratte di linee, consapevolmente circostanziate da un movimento di gomitolo che si scompone e si ricompone seguendo lo svolgimento di un disagio psicastenico.

L’intransigente sequela degli intrecci (nel linguaggio di Bruno) intrattiene la linea nel bisogno della forma di sentirsi congerie di spazi ritrovati: tra le forme tubolose del filo intrecciato, ciò che dev’essere consumato dal gomitolo è il gioco di movimenti incompatibili che si elevano a percorsi per condensare in clandestìnità la linea marcata dal riempimento delle licambèe saette.

XII

Il testo di Bruno ammonisce, si riempie di un’esistenza popolare schifando le esibizioni da pedantismo letterario. Costituisce un’impietosa arringa di contese col tumultuario alternarsi del discorso rimuginato ed escogitato. Flusso di coscienza come ricavato da un trompexI’oeil espressionista, e citologia sarcastica tramite cui l’accelerazione o il rallentamento del discorso mira a deformare grottescamente il senso.

Un testo di Bruno, se noi volessimo ridurlo in solidi, non potrebbe essere né un cubo, né una sfera, né una piramide, né un parallelepipedo, ma forse solo un rombicubottaedro con atteggiamenti poco ossequiosi verso la semplicità della forma. E se la frase fonde insieme, linguaggi diversi con la tecnica del bricolage, ogni parola in esso è una tessera che ammessa nell’ambiente del discorso, per la sua particolare e incompiuta configurazione, costituisce un pensiero plasmato per compressione in strettoi molto compatti.

Ogni parola in Bruno rasenta la frase convogliandola a una gran quantità di espressioni. E si potrebbe aggiungere, lo scrittore Bruno: “e sempre sulla macchia cieca dei sistemi, alla deriva; è un jolly, un mana, un grado zero, il morto del bridge: necessario al senso (allo scontro), ma privo in sé di senso fisso; il suo posto, il

suo valore (di scambio) varia secondo i movimenti della storia, i colpi tattici della lotta: gli si chiede tutto e/o nulla.” (Barthes).

Un testo di Bruno è: sconfinamento al di là di se stesso, un incontro fra linguaggi inquieti tramandati dall’insorgere di una lingua infetta situata nella materia di abiette sembraglie sociali quali randagi, questuanti, sbrindelloni. Lingua dai contorni aberranti, dimensione ingegnosa di festa carnascialesca. Lingua feroce, capibile dopo che ha azzannato. Lingua giustiziabile per eresia, abitatrice di un orgasmo ritmico che conduce fatalmente alla sentenziosità.

Ogni testo di Bruno è insomma un’aggIutinazione di umori antigerarchici, un
imbarazzante formulario indemoniato. Volgarizzamento pol , emico reintegrato in
una scomoda scrittura che si esprime in fotogrammi sarcastici a tenuta ermetica.
Convergenza di clandestinità programmate da un aspro calcolatore fuori di sé.
La parola in esso trama imboscate, aggredisce, supplizia: è l’intervento punitivo
di un’autosignificazione che si coagula in giocosa disavventura poetica.

isole Cicladi Colombaia

Francesco Borromini Disegno per la lanterna di S. Ivo alla Sapienza