Se ci si muove alla ricerca dell’alternativa letteraria, il genere di scrittura che sembrerebbe offrire più chances è, a prima vista, la poesia. Essa infatti si contraddistingue per statuto come linguaggio condizionato da regole che contraddicono la scrittura normale: non fosse altro che per andare a capo ogni tanto prima di aver finito la frase e quindi per lo stabilire delle pause di dizione diverse da quelle richieste dalla sintassi comune. Per non dire poi della metrica, del ritmo, della rima e delle particolari sonorità, la cosiddetta “musica” della poesia, fenomeni tutti non previsti nel linguaggio pratico ed anzi, quando vi si verificano, perfino un poco fastidiosi e vitandi. La prosa, invece, non presenta, anche in caso venga usata a scopi artistici come nel racconto o nel romanzo, nessuna eclatante differenza dal punto di vista formale; semmai, in quanto finzione, pretende delle libertà dal punto di vista del contenuto, anomalie minori che non sempre per altro vanno a ledere certe funzionalità referenziali. E non solo la prosa sembra prestarsi di meno all’alternativa per suo statuto; ma soprattutto, essendo presa in carico dal mercato nella forma generica di narrativa, è parsa di più in più assoggettata alla normalità di standard privi di rischi e quindi impossibilitata a sfruttare e a incentivare quelle devianze e quei paradossi e contraddizioni che pure potevano essere in nuce nell’idea di uno scritto ambiguo in quanto né del tutto vero né del tutto falso.
Se soltanto proviamo, però, a staccare dalla prosa la specificazione “narrativa” o almeno a considerarla inessenziale, parlandone in termini di scrittura, con responsabilità e tenore non dissimile da quello della poesia, ecco allora che le possibilità di operare in senso alternativo aumentano alquanto ed anzi l’alternativa in prosa, che d’ora in avanti chiamerò prosa anomala, diventa una sfida decisiva portata proprio nel cuore del territorio più avverso ed ostico. Un gesto di ribellione che comincia sospendendo, per prima cosa, proprio quelle funzioni rassicuranti cui è legato il consumo presso il cosiddetto “grande pubblico” (grande di numero, forse, ma non di età, dato che viene trattato come un adolescente un po’ tonto), le funzioni – dico – consolatoria e compensativa. Funzioni opposte e coincidenti quant’altre mai. La prima si esplica con i contenuti della prossimità, mostrando esperienze consimili alle nostre sotto il segno della vita vissuta, consolando per l’appunto attraverso il raggiungimento di un comune senso della vita, identificandovisi il lettore per empatia e commozioni varie, riconoscendo i suoi propri nei travagli degli altri, rivivendoli congiuntamente se vengono trascritti con sincerità e sollecitudine comunicativa. La seconda si esplica con i contenuti della lontananza, immettendo nell’arco di brillanti avventure condotte da eroi spericolati e arrischianti, magari salvati all’ultimo minuto da catastrofi rovinose, per tal via sostituendo alla monotona vita del grigiore qualunque quella vita fantastica che ognuno vorrebbe ma inattingibile ai condannati al tran tran, se non nello spazio meraviglioso costruito dal testo. Per l’uno o per l’altro mezzo, dall’autobiografismo al fantasy, i lettori si ritrovano “presi” (“questo libro mi prende” è espressione che sentiamo spesso come positiva, mentre a me pare che non c’è da esserne soddisfatti), sì, presi in trappola. La prima mossa da fare, allora, per l’alternativa, è invalidare questa doppia maniera di proiezione e restituire la pagina all’esplorazione e alla ricerca di un rapporto non preordinato con la vita e i suoi materiali non ancora sottoposti ai modelli prefabbricati della messa-in-storia.
Il lavoro dell’anomalia ha un aspetto negativo, critico, proprio perché deve liberarsi da tali schemi stereotipati che non solo reggono i criteri di pubblicazione (nell’editing editoriale, nelle scuole di scrittura, ecc.), ma soprintendono anche all’orizzonte d’attesa di un lettore diseducato, che non ha più nemmeno l’idea di cosa possa essere una diversa soluzione. E tuttavia non si tratta in realtà di negare alcunché, ma semplicemente di guardare altrove, liberi da impacci e condizionamenti, a una gamma più aperta e ampia di possibilità. Una libertà immaginativa, un’anarchia formale che tendono allo scatenamento inventivo, non più oberato dai tabù. (Si rovescia in questa visuale l’ottica consueta che attribuisce la tabuizzazione all’avanguardia: non è l’avanguardia a dire “no”, se si preclude le strade della scorrevolezza e della facilità è solo per un atto liberatorio; è al contrario il testo “normato” che si proibisce, magari inconsciamente, per raggiungere il suo limitato scopo di seduzione, tutto l’arco delle possibilità della scrittura, riducendolo a poche e scontate varianti). Tale ampiezza può essere già verificata se consideriamo le risorse della teoria novecentesca: quelle racchiuse nelle tre “B”, Bachtin, Benjamin e Brecht. Bachtin è il rappresentante del plurilinguismo, che sposta il riconoscimento della realtà sociale, con le sue contraddizioni e conflitti, dal piano dei contenuti a quello dei linguaggi utilizzati; e poiché la società è piena di livelli, di gruppi, di attività, altrettanto il testo si riempie di lingue diverse che dialogano tra loro, ma anche si sovrappongono e si pestano i piedi (così la parodia è un testo sovrapposto, spesso polemicamente, a un altro testo). Ampliando questo criterio si arriva a concepire il testo come eterogeneo, costruito per montaggio di materiali diversi, con attrito tra loro e dissonanza costitutiva; ampliando ancora, si fa rientrare nella prosa, insieme alla scelta linguistica, anche il problema della sonorità, del ritmo e simili, una gamma di procedimenti che riguarda la scrittura in prosa non meno della poesia. Con Benjamin, invece, l’opera è investita dalla questione dell’allegoria, vale a dire di un senso altro della rappresentazione; il rappresentato non è la riproduzione mimetica della realtà e non va valutato per la veridicità rispetto ad essa, ma rimanda ad un secondo livello, che per altro non solo concerne singole figure, ma può coinvolgere gli stili, le forme, i modelli e quanti elementi si affaccino nel testo, tutti convogliati, in una sorta di costellazione, alla costruzione di questo senso secondo. Il risultato, soprattutto nell’allegoria moderna, quella che, a differenza della classica, non presenta una chiave definita, ma invita alla sua ricerca chiedendo al lettore uno sforzo interpretativo, il risultato, dicevo, è quello di impedire la semplice immedesimazione nella vicenda; piuttosto l’allegoria moderna si presenta come enigma, cioè oggetto di riflessione e indagine, sollecitando un analogo comportamento nei riguardi della comunicazione sociale, insegnandoci che i messaggi vanno letti attentamente tra le righe. Infine, ultimo ma solo in ordine alfabetico, Brecht e lo straniamento: con esso le cose vengono viste da fuori sospendendo la loro naturalezza. Ciò che sembra naturale nei sentimenti, nelle nozioni-guida, nei rapporti umani stessi, viene invece indicato come “strano”, cioè come costruito artificialmente o indotto da processi imitativi; ciò che sembrava un problema squisitamente individuale e privato (quasi sempre le storie letterarie sono la storia di uno, il o la protagonista), è mostrato invece come collettivo e pubblico, in senso lato “politico”. Nello straniamento una distorsione si introduce nel semplice e nello scontato producendo un effetto di sorpresa.
Ma, al di là di questi suggerimenti, l’anomalia “si dice in molti altri modi”, che non possono essere ricondotti ad un unico schema, ma soltanto enumerati, elencati senza alcuna pretesa di esaustività. Una linea, ad esempio, è quella dello sperpero, della sovrabbondanza, dell’accelerazione: il racconto c’è, ma si divide per mille rivoli e storie molteplici, si pluralizza, come del resto avviene nella vita, si può prestare a commistioni, come quando si mischia al linguaggio critico-saggistico (è l’ipotesi Musil), oppure il filone principale viene aperto dalle digressioni e perso di vista, i narratori stessi si sostituiscono l’un l’altro o si incastrano uno nell’altro, volendo, oppure ancora il racconto subisce una tensione che lo tira e sganghera da tutte le parti. Il ritmo assume un ruolo fondamentale, come nelle prove di Céline, ossessionato dall’incalzare dei suoi tre puntini che non gli lasciano mai riprendere fiato. Il periodo si allarga e si accorcia a fisarmonica secondo le esigenze, l’importante è che non si assesti mai su di un unica misura e conceda al principio del continuo cambiamento. Ma c’è anche la linea per certi versi opposta, quella dell’irrigidimento: il racconto è ripreso, sì, ma seguendo letteralmente lo stereotipo, tanto letteralmente da evidenziarlo come tale. Si può trattare di citazione vera e propria, ma anche di riscrittura parodica, non però quella neutra di marca postmoderna che anzi consente di rifare il banale con una strizzatina d’occhio, piuttosto a derogare è la riscrittura a scopo polemico, dove l’ironia fa risaltare il rifiuto della norma. Così, ad esempio, Joyce rimette in campo il modello omerico, in Ulisse, ma trasposto in modo anacronistico nel mondo delle percezioni frantumate della modernità e nella sua quotidianità antieroica (o eroica nel modo più “basso”): Joyce rifà i sottogeneri dominanti, il romanzo di formazione, il romanzo di adulterio, il romanzo dei bassifondi, il romanzo storico, disgregandoli tutti e mischiandoli tra loro in una sarabanda stilistica trasgressiva.
Un ruolo importante può avere anche la deformazione espressionista. In essa si alterano tutte le coordinate, il racconto è preso dentro una furia iconoclasta e caricaturale (per esempio in Gadda). Espressionismo significa che l’espressione, lei che il senso comune vorrebbe emessa spontaneamente da un singolo soggetto senza troppo pensarci, lo sia però da un soggetto che non si lascia assoggettare, e perciò scaturisca con energia e si imprima nel linguaggio stesso modificandolo sia nel lessico che nella sintassi. Si parla tanto di emozione, pensando esclusivamente a emozioni “delicate” e impalpabili, molcenti, carezzevoli; ma anche la rabbia è una emozione e delle più virulente, ma invece di “moderare” si butta agli estremi, inducendo cariche tensive, dissonanze, nonché alterazioni grottesche. Diventando un -ismo nell’espressionismo, l’espressione si carica, si stravolge, diventa una forza d’urto.
Anche al livello dell’assetto della trama, le anomalie possono essere molte: l’assenza di scioglimento (ancora Gadda docet), il personaggio fuori ruolo, il racconto in stato di stallo quando per pagine e pagine non succede assolutamente niente (un record di durata lo detiene D’Arrigo). Anomalo davvero è lo sproloquio di una voce che parla all’unico scopo di mantenere la parola, mentre nel frattempo sottrae uno per volta tutti gli elementi che aveva posto o provato a porre; una sistematica sottrazione che svuota il mondo lasciando solo una pervicace “istanza verbale”, caso massimo e forse insuperabile L’innominabile di Beckett.
E il mondo impossibile? È certamente anomalo, ma si danno gradi diversi: nel genere fantastico il mondo è simil-reale e solo un elemento, la creatura fantastica, viene a turbare l’ordine della verosimiglianza; nel fantasy e nella fantascienza l’intero mondo è inventato, però una volta che lo sia stato continua ad avere l’obbligo della coerenza; un passo in più verso l’irrealtà lo garantisce l’onirismo (principale esempio Kafka) dove luoghi e personaggi possono mutare nel corso del testo; quindi, precisamente, la metamorfosi: la forma del sogno vuol dire libertà e desiderio, ma anche incubo, ossessione e tortura, utopia ma anche crudeltà. Un passo ancora e c’è il nonsense, l’associazione incongrua, l’apporto del linguaggio del caso che costruisce provvisori insiemi come esercizio di agilità mentale e di reinvenzione da parte del lettore, tanto che – secondo il noto esempio – un’aringa può trovarsi in salotto ed essere colorata di verde. Perché no? se collabora alla reinvenzione del linguaggio e ci addestra alla flessibilità e al cambiamento?
Ancora, può tornare utile la metalessi, quel punto in cui l’autore interrompe il racconto (vedi Sterne, il Diderot di Jacques il fatalista) dimostrando che si tratta di una finzione ipotetica e discutibile, che potrebbe andare ugualmente in un modo o in un altro. E si può narrare al condizionale, quasi non si dicesse che una cosa “c’è”, ma soltanto che potrebbe esserci (il Salto mortale di Malerba). In ogni caso l’identificazione diventa problematica, l’immersione nella finzione non funziona, si è chiamati a riemergere, a risvegliarsi e ad assumere un atteggiamento critico e consapevole. Insomma, dove l’identificazione si blocca, l’identità viene messa alla prova, e posta sotto un punto interrogativo che le toglie la corazzata certezza.
E ce ne potrebbero essere ancora altri, di procedimenti, nel passato e nel futuro, basta volerli andare a cercare.
Certo, vista dall’altra parte (quella di chi cerca di consolidare le certezze e di rafforzare l’identità data) l’anomalia letteraria sembrerà semplicemente follia, delirio, pura immaginazione senza rapporto con la realtà, magari gioco evasivo e immorale. E molto si parla di “realismo” come obbligo per lo scrittore di tornare a parlare delle cose concrete e di assumerne la responsabilità trattandole come contenuto riconoscibile. Sembrerebbe un richiamo al sano “valore d’uso”: ma siamo sicuri che questo non sia un trucco del “valore di scambio” che, di nascosto, continua a condurre la danza ancora e meglio di prima? E siamo proprio sicuri che la deriva dell’immaginazione sia così lontana dalla concretezza della vita? In fondo, la merce non si potrà negare che sia qualcosa di molto concreto e di molto centrale nella nostra esistenza, se sentiamo dire che anche molte attività spirituali sono, purtroppo, mercificate – e quegli stessi standard delle narrazioni di consumo non sono altro che il risultato, non già di scelte poetiche e riflessioni teoriche, ma delle presunte “leggi di mercato”. Nella merce, dunque, che noi acquistiamo, c’è sempre un gioco di attrazione, di investimento, che chiama in ballo l’immaginazione. È per questo che l’immaginazione viene tenuta in uno stato di degrado nell’immaginario collettivo (un po’ come quegli umani di Matrix tenuti a bagno e viventi nell’apparenza della realtà virtuale), perché deve operare in un certo modo, al di sotto della soglia critica. La prosa anomala è un allenamento alla resistenza e un esercizio di rovesciamento per reinvestire l’immaginario, riformarlo, se non liberarlo. Non è quindi lontana dalla realtà, ma realtà essa stessa, nel suo rigore utopico va più vicino al reale di tante descrizioni e trascrizioni che restano alla superficie consolando o compensando con eroi e vicende simil-veri, ma attentamente costruiti con effetti illusionistici a scopo di obnubilante identificazione.