Lezione tenuta da Gaetano dell Santi il 25 maggio 2007
Una parentesi sul rapporto tra l’Espressionismo ed il Romanticismo
L’arte bene-stante sta bene e fa star bene, fa star tranquilli, rilassati, appagati, pasciuti.
Con grandi profondi respiri, rilassa le membra, distende i muscoli, intorpidisce le ossa, assopisce sensi e coscienza…
Un dettaglio! Un dettaglio improvviso sveglia l’attenzione addormentata: è visto, assaporato, udito, analizzato, tagliato nel vivo della sua carne fino ai minimi termini, in uno spazio caotico, non gerarchizzato, non predigerito da un’entità ordinatrice, uno spazio senza territorio, incondizionato, uno spazio minaccioso e allettante nella sua libertà. Nessuno stampo normativo da imitare o prospettiva povera, falsa e riduttiva che incanalino in un precostituito senso monodimensionale: cancellare il mondo per costruirne un altro con audacia, un mondo in cui essere quel che si è, forma significante (oggetto-parola) non ingabbiata dalle maglie della norma, della razionalità sterile o del linguaggio consueto ed abusato.
Se la parola si fissa, muore. Se la parola rimanda solo a se stessa, muore. Se la parola è solo pura razionalità, è impotente, poiché il pensiero si adatta al già pensante e al già pensato e muore. Se la parola non smuove, è già morta.
L’Espressionismo ha costruito il caos. Il Romanticismo ha visto oltre il visibile.
L’Espressionismo ha la forza eccentrica vitale e libertaria del dionisiaco nietzscheano. Il Romanticismo è lotta eversiva alla razionalità astringente di derivazione classicista.
Il Romanticismo è sociale cosmologicamente. L’Espressionismo è anatomicamente sociale.
Lo slancio romantico ed espressionista della parola sociale è conseguenza dell’unidimensionalità del modo di vita, della cultura di stampo borghese che, gerarchizzando e domando il caotico flusso del reale, ne cassa la complessità linguistica, la ricchezza formale e con equità reprime la percezione sinestesica e la libertà espressiva.
L’Espressionismo evolve la spirale della lotta di cancellazione della coercizione intrapresa dal Romanticismo; come questo propugna conformazioni stellari di pensieri interconnessi lontane dal sapere monoculare controllato. Ma la liberazione di un altrove è inconcepibile per l’autocompiaciuto ‘io’ classicista (ben diverso da quello romantico titanico e miserevole).
L’emotività delle forme romantica ed espressionista, come quella primitiva dei popoli di natura, non è estemporaneità incontrollata, sfogo unicamente irrazionale.
L’Espressionismo ha costruito un linguaggio di rigore assoluto, nel quale l’improvvisazione è concepita all’interno di uno scheletro dinamico. La forma espressionista, come quella romantica, è libera pregna svincolata dalla rigidità delle convenzioni del significato simbolico, autoritario nella sua immobilità. La forma diviene altro da sé ed interessa per il suo essere sempre di là da venire, forma e forma che smette se stessa, formante e de-formante, gestione caotica di un’incalcolabile concentrazione di spazi, in cui la realtà individuale e sociale viene vivisezionata o crepa le proprie barriere proiettandosi in un oltre senza fini.
Anche nella percezione della natura l’occhio può così viaggiare su un binario che sa prescindere dal visibile e da esso sa farsi penetrare, raccogliendone l’eco che giungono riflesse da tutto il corpo senziente. Nella visione universale (cosmologica per il Romanticismo e trivellante per l’Espressionismo) i limiti imposti dalla consuetudine violenta della normalità vengono rasi al suolo, i sensi vengono spiritualizzati: l’occhio confinato è sconfinato, scansiona il dettaglio entrandone all’interno, per stanare in un caso l’infinitamente grande e nell’altro l’infinitamente piccolo.
Stralciando l’intimità dell’io imperturbabile, la perenne tensione sociale dell’Espressionismo è l’entusiasmo per l’incommensurabile vitale e diventa forma di indeterminatezza costruita a partire dal determinato, da ciò che si ritiene noto. E non sono ancora riusciti a fermarla.
“…sento a tal punto la mia libertà che non sono più padrone di me stesso.”
Elisa Gastaldi