lezione tenuta il 19 luglio 2007 da Gaetano delli Santi
F. T. MARINETTI
UCCIDIAMO IL CHIARO DI LUNA!
aprile 1909
1
– Olà! grandi poeti incendiarî, fratelli miei futuristi!…Olà! Paolo Buzzi, Palazzeschi, Cavacchioli, Govoni, Altomare, Folgore, Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini, Pratella, D’Alba, Mazza! Usciamo da Paralisi, devastiamo Podagra e stendiamo il gran Binario militare sui fianchi del Gorisankar, vetta del mondo!
Uscivamo tutti dalla città, con un passo agile preciso, che sembrava volesse danzare cercando ovunque ostacoli da superare. Intorno a noi, e nei nostri cuori, immensa ebrietà del vecchio sole europeo[1], che barcollava tra nuvole color di vino…Quel sole ci sbatté sulla faccia la sua gran torcia di porpora incandescente, poi crepò, vomitandosi tutto all’infinito.
Turbini di polvere aggressiva; acciecante fusione di zolfo, di potassa e di silicati per le vetrate dell’Ideale!…Fusione d’un nuovo globo solare che presto vedremo risplendere.
– Vigliacchi! – gridai, voltandomi verso gli abitanti di Paralisi, ammucchiati sotto di noi, massa enorme di obici irritati, già pronti per i nostri futuri cannoni.
“Vigliacchi! Vigliacchi!…Perché queste vostre strida di gatti scorticati vivi?…Temete forse che appicchiamo il fuoco alle vostre catapecchie?…Non ancora!…Dovremo pur scaldarci nell’inverno prossimo!…Per ora, ci accontentiamo di far saltare in aria tutte le tradizioni[2], come ponti fradici!…La guerra?…Ebbene, sì: essa è la nostra unica speranza, la nostra ragione di vivere, la nostra sola volontà!…Sì, la guerra![3] Contro di voi, che morite troppo lentamente, e contro tutti i morti che ingombrano le nostre strade!…
“Sì, i nostri nervi esigono la guerra e disprezzano la donna[4], poiché noi temiamo che braccia supplici s’intreccino alle nostre ginocchia, la mattina della partenza!…Che mai pretendono le donne, i sedentarî, gl’invalidi, gli ammalati, e tutti i consiglieri prudenti? Alla loro vita vacillante, rotta da lugubri agonie, da sonni tremebondi e da incubi grevi, noi preferiamo la morte violenta e la glorifichiamo come la sola che sia degna dell’uomo, animale da preda[5].
“Vogliamo che i nostri figliuoli seguano allegramente il loro capriccio, avversino brutalmente i vecchi e sbeffeggino tutto ciò che è consacrato dal tempo!
“Questo v’indigna? Mi fischiate?…Alzate la voce!…Non ho udita l’ingiuria! Più forte! Che cosa? Ambiziosi?…Certamente! Siamo degli ambiziosi, noi, perché non vogliamo strofinarci ai vostri fetidi velli, o gregge puzzolente, color di fango, canalizzato nelle strade antiche della Terra…Ma “ambiziosi” non è la parola esatta! Noi siamo piuttosto dei giovani artiglieri in baldoria![6]…E voi dovete, anche a vostro dispetto, abituarvi al frastuono dei nostri cannoni! Che cosa dite?…Siamo pazzi?…Evviva! Ecco finalmente la parola che aspettavo!…Ah! Ah! Bellissima trovata!…Prendete con cautela questa parola d’oro massiccio, e tornatevene presto in processione, per celarla nella più gelosa delle vostre cantine! Con quella parola fra le dita e sulle labbra, potrete vivere ancora venti secoli…Per conto mio, vi annuncio che il mondo è fradicio di saggezza!…
“E’ perciò che noi oggi insegniamo l’eroismo metodico e quotidiano, il gusto della disperazione, per la quale il cuore dà tutto il suo rendimento, l’abitudine all’entusiasmo, l’abbandono alla vertigine…
“Noi insegnamo il tuffo nella morte tenebrosa sotto gli occhi bianchi e fissi dell’Ideale…E noi stessi daremo l’esempio, abbandonandoci alla furibonda Sarta delle battaglie, che, dopo averci cucita addosso una bella divisa scarlatta, sgargiante al sole, ungerà di fiamma i nostri capelli spazzolati dai proiettili…Così appunto la calura di una sera estiva spalma i campi d’uno scivolante fulgòre di lucciole.
“Bisogna che gli uomini elettrizzino ogni giorno i loro nervi ad un orgoglio temerario!…Bisogna che gli uomini giuochino d’un tratto la loro vita, senza spiare i biscazzieri bari e senza controllare l’equilibrio delle roulettes, stando chini sui vasti tappeti verdi della guerra, covati dalla fortunosa lampada del sole. Bisogna, – capite? – bisogna che l’anima lanci il corpo in fiamme, come un brulotto, contro il nemico, l’eterno nemico che si dovrebbe inventare se non esistesse!…
“Guardate laggiù, quelle spiche di grano, allineate in battaglia, a milioni…Quelle spiche, agili soldati dalle baionette aguzze, glorificano la forza del pane, che si trasforma in sangue, per sprizzar dritto, fino allo Zenit. Il sangue sappiatelo, non ha valore né splendore, se non liberato, col ferro o col fuoco, dalla prigione delle arterie! E noi insegneremo a tutti i soldati armati della terra come il sangue debba essere versato…Ma, prima, converrà ripulire la grande Caserma dove voi pullulate, insetti che siete! Ci vorrà poco…Frattanto, cimici, potete ancora tornare, per questa sera, agl’immondi giacigli tradizionali, su cui noi non vogliamo più dormire!”
Mentre volgevo loro le spalle, io sentii, dal dolore della mia schiena, che troppo a lungo avevo trascinato, nella rete immensa e nera della mia parola, quel popolo moribondo, coi suoi ridicoli guizzi di pesce ammucchiato sotto l’ultima ondata di luce[7] che la sera spingeva alle scogliere della mia fronte.
2
La città di Paralisi[8], col suo gridìo di pollaio, coi suoi orgogli impotenti di colonne troncate, con le sue cupole tronfie che partoriscono statuette meschine[9], col capriccio dei suoi fumi di sigaretta sopra bastioni puerili offerti ai buffetti… scomparve alle nostre spalle, danzando al ritmo dei nostri passi veloci.
Davanti a me, ancora distante alcuni chilometri, si delineò ad un tratto il Manicomio, alto sulla groppa di una collina elegante, che sembrava trotterellare come un puledro.
– Fratelli, – diss’io – riposiamoci per l’ultima volta, prima di muovere alla costruzione del gran Binario futurista[10]!
Ci coricammo, tutti fasciati dall’immensa follia della Via Lattea, all’ombra del Palazzo dei vivi, e subito tacque il fracasso dei grandi martelli quadrati dello spazio e del tempo…Ma Paolo Buzzi, non poteva dormire, poiché il suo corpo spossato sussultava ad ogni istante alle punture delle stelle velenose che ci assalivano da ogni parte.
– Fratello! – mormorò – scaccia lontano da me codeste api che ronzano sulla rosa porporina della mia volontà!
Poi si riaddormentò nell’ombra visionaria del Palazzo ricolmo di fantasia, da cui saliva la melopea cullante ed ampia della eterna gioia.
Enrico Cavacchioli sonnecchiava e sognava ad alta voce: – Io sento ringiovanire il mio corpo ventenne!…Io ritorno, d’un passo sempre più infantile, verso la mia culla…Presto, rientrerò nel ventre di mia madre!…Tutto, dunque, mi è lecito!…Voglio preziosi gingilli da rompere… Città da schiacciare, formicai umani da sconvolgere!…Voglio addomesticare i Venti e tenerli a guinzaglio…Voglio una muta di venti, fluidi levrieri, per dar la caccia ai cirri flosci e barbuti.
La respirazione dei miei fratelli dormenti fingeva il sonno di un mare possente, su una spiaggia. Ma l’entusiasmo inesauribile dell’aurora traboccava già dalle montagne, tanto copiosamente la notte aveva dovunque versato profumi e linfe eroiche. Paolo Buzzi, bruscamente sollevato da quella marea di delirio, si contorse, come nell’angoscia di un incubo.
– Li udite i singhiozzi della Terra?…La Terra agonizza[11] nell’orrore della luce!…Troppi soli si chinarono al suo livido capezzale! Bisogna lasciarla dormire!…Ancora! Sempre!…Datemi delle nuvole, dei mucchi di nuvole, per coprire i suoi occhi e la sua bocca che piange!
A queste parole il Sole ci porse dall’estremità dell’orizzonte, il suo tremulo e rosso volante di fuoco.
– Alzati, Paolo! – gridai allora. – Afferra quella ruota!…Io ti proclamo guidatore del mondo!…Ma, ahimè, noi non potremo bastare al gran lavoro del Binario futurista! Il nostro cuore è ancora pieno di un ciarpame immondo: code di pavoni, pomposi galli di banderuole, leziosi fazzoletti profumati!…E non abbiamo ancora scacciate dal nostro cervello le lugubri formiche della saggezza…Ci vogliono dei pazzi!…Andiamo a liberarli!
Ci avvicinammo alle mura imbevute di gioia solare, costeggiando una sinistra vallata, ove trenta gru metalliche sollevano stridendo, dei vagoncini pieni d’una biancheria fumigante, inutile bucato di quei Puri, lavati già da ogni sozzura di logica.
Due alienisti comparvero, categorici, sulla soglia del Palazzo. Io non avevo fra le mani che uno smagliante fanale d’automobile[12]; e fu col suo manico di lucido ottone che inculcai loro la morte.
Dalle porte spalancate, pazzi e pazze scamiciati, seminudi, eruppero a migliaia, torrenzialmente, così da ringiovanire e ricolorare il volto rugoso della Terra.
Alcuni vollero subito brandire, come bastoni d’avorio, i campanili lucenti; altri si misero a giuocare al cerchio con delle cupole…Le donne pettinavano le loro lontane capigliature di nuvole con le acute punte di una costellazione.
– O pazzi, o fratelli nostri amatissimi, seguitemi!…Noi costruiremo il Binario sulle cime di tutte le montagne, fino al mare! Quanti siete?…Tremila?…Non basta! D’altronde la noia e la monotonia troncheranno in breve il vostro bello slancio…Corriamo a domandar consiglio alle belve dei serragli accampati alle porte della Capitale. Sono gli esseri più vivi, i più sradicati, i meno vegetali! Avanti!…A Podagra! A Podagra!…
E partimmo, scarica formidabile di una chiusa immane.
L’esercito della follia[13] si avventò di pianura in pianura, calò per le valli, ascese rapido alle cime, con lo slancio fatale e facile d’un liquido entro enormi vasi comunicanti, e infine mitragliò di grida, di fronti e di pugni le mura di Podagra che risuonò come una campana.
Dopo avere ubbriacati, uccisi o calpestati i guardiani[14], la gesticolante marea inondò l’immenso corridoio melmoso del serraglio, le cui gabbie, piene di velli danzanti ondeggiavano nel vapore delle urine selvatiche e oscillavano più leggiere che gabbie di canarini fra le braccia dei pazzi.
Il regno dei leoni ringiovanì la Capitale. La ribellione delle criniere e il voluminoso sforzo delle groppe inarcate a leva scolpivano le facciate. La loro forza di torrente, scavando il selciato, trasformò le vie in altrettanti tunnel dalle vôlte scoppiate. Tutta la tisica vegetazione degli abitanti di Podagra fu infornata nelle case, le quali, piene di rami urlanti, tremavano sotto la impetuosa grandinata di sgomento che crivellava i tetti.
Con bruschi slanci e con lazzi da clowns, i pazzi inforcavano i bei leoni indifferenti, che non li sentivano, e quei bizzarri cavalieri esultavano ai tranquilli colpi di coda che ad ogni istante li gettavano a terra…Ad un tratto, le belve si arrestarono, i pazzi tacquero, davanti alle mura, che non si muovevano più…
– I vecchi son morti[15]…I giovani sono fuggiti!… Meglio così!…Presto! Siano divelti i parafulmini e le statue!…Saccheggiamo gli scrigni colmi d’oro…Verghe e monete!…Tutti i metalli preziosi saranno fusi, pel gran Binario militare!…
Ci precipitammo fuori, coi pazzi gesticolanti e le pazze scarmigliate, coi leoni, le tigri e le pantere cavalcate a nudo da cavalieri che l’ebbrezza irrigidiva contorceva ed esilarava freneticamente.
Podagra non fu più che un immenso tino, pieno di un rosso vino dai gorghi spumosi, che colava veemente dalle porte, i cui ponti levatoi erano imbuti trepidanti e sonori…
Attraversammo le rovine dell’Europa ed entrammo nell’Asia, sparpagliando lontano le orde terrorizzate di Podagra e di Paralisi, come i seminatori gettano la semente con un gran gesto circolare.
3
A notte piena, eravamo quasi in cielo, su l’altipiano persiano, sublime altare del mondo, i cui gradini smisurati portano popolose città. Allineati all’infinito lungo il Binario ansavamo su crogiuoli di barite, di alluminio e di manganese, che a quando a quando spaventavano le nuvole con la loro esplosione abbagliante; e ci sorvegliava, in cerchio, la maestosa ronda dei leoni che, erette le code, sparse al vento le criniere, foravano il cielo nero e profondo coi loro ruggiti tondi e bianchi.
Ma, a poco a poco, il lucente e caldo sorriso della luna traboccò dalle nuvole squarciate[16]. E, quando ella apparve infine, tutta grondante dell’inebriante latte delle acacie, i pazzi sentirono il loro cuore staccarsi dal petto e salire verso la superficie della liquida notte.
Ad un tratto, un grido altissimo lacerò l’aria; un rumore si propagò, tutti accorsero…Era un pazzo giovanissimo, dagli occhi di vergine, rimasto fulminato sul Binario.
Il suo cadavere fu subito sollevato. Egli teneva fra le mani un fiore bianco e desioso, il cui pistillo s’agitava come una lingua di donna. Alcuni vollero toccarlo, e fu male, poiché rapidamente, con la facilità di un’aurora che si propaga sul mare, una verdura singhiozzante sorse per prodigio dalla terra increspata di onde inattese.
Dal fluttuare azzurro delle praterie, emergevano vaporose chiome d’innumerevoli nuotatrici, che schiudevano sospirando i petali delle loro bocche e dei loro occhi umidi. Allora, nell’inebbriante diluvio dei profumi, vedemmo crescere distesamente intorno a noi una favolosa foresta, i cui fogliami arcuati sembravano spossati da una brezza troppo lenta. Vi ondeggiava una tenerezza amara…Gli usignuoli bevevano l’ombra odorosa con lunghi gorgoglii di piacere, e a quando a quando scoppiavano a ridere nei cantucci giocando a rimpiattino come fanciulli vispi e maliziosi. Un sonno soavissimo vinceva lentamente l’esercito dei pazzi, che si misero a urlare dal terrore.
Irruenti, le belve si precipitarono a soccorrerli. Per tre volte, stretti in gomitoli balzanti, e con assalti uncinati di rabbia esplosiva, le tigri caricarono gli invisibili fantasmi di cui ribolliva la profondità di quella foresta di delizie…
Finalmente, fu aperto un varco: enorme convulsione di fogliami feriti, i cui lunghi gemiti svegliarono i lontani echi loquaci appiattati nella montagna. Ma, mentre ci accanivamo, tutti, a liberar le nostre gambe e le nostre braccia dalle ultime liane affettuose, sentimmo a un tratto la Luna carnale, la Luna dalle belle cosce calde, abbandonarsi languidamente sulle nostre schiene affrante.
Si udì gridare nella solitudine aerea degli altipiani:
– Uccidiamo il chiaro di Luna![17]
Alcuni accorsero alle cascate vicine; gigantesche ruote furono innalzate, e le turbine trasformarono la velocità delle acque in magnetici spasimi che s’arrampicarono a dei fili, su per alti pali, fino a dei globi luminosi e ronzanti.
Fu così che trecento lune elettriche cancellarono coi loro raggi di gesso abbagliante l’antica regina verde degli amori.
E il Binario militare fu costruito. Binario stravagante[18] che seguiva la catena delle montagne più alte e sul quale si slanciarono tosto le nostre
veementi locomotive impennacchiate di grida acute, via da una cima all’altra, gettandosi in tutti i precipizi e arrampicandosi dovunque, in cerca di abissi affamati, di svolti assurdi e d’impossibili zig-zag…Tutt’intorno, da lontano, l’odio illimitato segnava il nostro orizzonte irto di fuggiaschi. Erano le orde di Podagra e di Paralisi, che noi rovesciammo nell’Indostan.
4
Accanito inseguimento…Ecco scavalcato il Gange! Finalmente il soffio impetuoso dei nostri petti fugò davanti a noi le nuvole striscianti, dagli avvolgimenti ostili, e noi scorgemmo all’orizzonte i sussulti verdastri dell’Oceano Indiano, a cui il sole metteva una fantastica museruola d’oro..
Sdraiato nei golfi di Oman e del Bengala, esso preparava perfidamente l’invasione delle terre.
All’estremità del promontorio di Cormorin, orlato di una poltiglia di ossami biancastri, ecco l’Asino colossale e scarno la cui groppa di cartapecora grigiastra fu incavata dal peso delizioso della Luna…Ecco l’Asino dotto, dal membro prolisso rammendato di scritture, che raglia da tempo immemorabile il suo rancore asmatico[19] contro le brume dell’orizzonte, dove tre grandi vascelli s’avanzavano immobili, con le loro velature simili a colonne vertebrali radiografate.
Subito, l’immensa mandra delle belve cavalcate dai pazzi protese sui flutti musi innumerevoli, sotto il turbinìo delle criniere che chiamavano l’Oceano alla riscossa. E l’Oceano rispose all’appello, inarcando un dorso enorme e squassando i promontorî prima di prender lo slancio. Esso provò lungamente la propria forza, agitando le anche e ripiegando il ventre sonoro fra le sue vaste fondamenta elastiche.
Poi, con un gran colpo di reni, l’Oceano poté sollevare la propria massa e sormontò la linea angolosa delle rive…Allora, la formidabile invasione cominciò.
Noi marciavamo nell’ampio accerchiamento delle onde scalpitanti, grandi globi di schiuma bianca che rotolavano e crollavano, docciando le schiene dei leoni…Questi, allineati in semicerchio intorno a noi, prolungavano da ogni parte le zanne, la bava sibilante e gli urli delle acque. Talvolta, dall’alto delle colline, guardavano l’Oceano gonfiare progressivamente il suo profilo mostruoso, come una immensa balena che si spingesse innanzi su un milione di pinne. E fummo noi che lo guidammo così fino alla catena dell’Imalaia, aprendo, come un ventaglio, il formicolìo delle orde in fuga che volevamo schiacciare contro i fianchi del Gorisankar.
– Affrettiamoci, fratelli miei!…Volete dunque che le belve ci sorpassino? Noi dobbiamo rimanere in prima fila malgrado i nostri lenti passi che pompano i succhi della terra…Al diavolo queste mani vischiose e questi piedi che trascinano radici!…Oh! noi non siamo che poveri alberi vagabondi! Vogliamo delle ali! Facciamoci dunque degli aeroplani[20].
Saranno azzurri gridarono i pazzi azzurri,per sottrarci meglio agli sguardi del nemico, e per confonderci con l’azzurro del cielo, che, quando c’è vento, garrisce sulle vette come un’immensa bandiera[21].
E i pazzi[22] rapirono mantelli turchini alla gloria dei Budda, nelle antiche pagode, per costruire le loro macchine volanti.
Noi ritagliammo i nostri aeroplani futuristi nella tela color d’ocra dei velieri. Alcuni avevano ali equilibranti e portando i loro motori, s’inalzavano come avoltoi insanguinati che sollevassero in cielo vitelli convulsi.
Ecco: il mio biplano multicellulare a coda direttiva: 100 HP, 8 cilindri, 80 chilogrammi…Ho fra i piedi una minuscola mitragliatrice, che posso scaricare premendo un bottone d’acciaio…
E si parte, nell’ebbrezza di un’agile evoluzione, con un volo vivace, crepitante, leggiero e cadenzato come un canto d’invito a bere e a ballare.
Urrà! Siam degni finalmente di comandare il grande esercito dei pazzi e delle belve scatenate![23]…
Urrà! Noi dominiamo la nostra retroguardia: l’Oceano col suo avviluppamento di schiumanti cavallerie! Avanti, pazzi, pazze, leoni, tigri, e pantere! Avanti, squadroni di flutti!…I nostri aeroplani saranno per voi, a volta a volta,bandiere di guerra e amanti appassionate! Deliziose amanti che nuotano, aperte le braccia, sull’ondeggiar dei fogliami, o che indugiano mollemente sull’altalena della brezza!. Ma guardate lassù, a destra, quelle spole azzurre…Sono i pazzi, che cullano i loro monoplani sull’amaca del vento del sud!…Io intanto, sto seduto come un tessitore davanti al telaio e vo tessendo l’azzurro serico del cielo!
Oh quante fresche vallate, quanti monti burberi, sotto di noi!…Quanti greggi di pecore rosee, sparsi sui declivi delle verdi colline che si offrono al tramonto!…Tu le amavi,anima mia!…No! No! Basta! Tu non godrai più, mai più, di simili insipidezze!…Le canne colle quali un tempo facevamo delle zampogne formano l’armatura di questo aeroplano!…Nostalgia! Ebbrezza trionfale! Presto avremo raggiunti gli abitanti di Podagra e di Paralisi, poiché voliamo rapidi ad onta delle raffiche avverse…Che dice l’anemometro?…Il vento che ci è contrario ha una velocità di cento chilometri all’ora!…Che importa? Io salgo a duemila metri, per sorpassare l’altipiano…Ecco! Ecco le orde!…Là, là, davanti a noi, e già sotto ai nostri piedi!…Guardate, laggiù, a picco, fra gli ammassi di verdura, la tumultuante follia di quel torrente umano che s’accanisce a fuggire!
Questo fracasso?…E lo schianto degli alberi! Ah! Ah! Le orde nemiche sono ormai cacciate contro l’alta muraglia del Gorisankar!…E noi diamo loro battaglia[24]!…Udite? Udite i nostri motori come applaudono?…Olà, grande Oceano Indiano, alla riscossa!
L’Oceano ci seguiva solennemente,atterrando le mura delle città venerate e gettando di sella le torri illustri, vecchi cavalieri dall’armatura sonora, crollati giù dagli arcioni marmorei dei templi.
Finalmente! Finalmente! Eccoti dunque davanti a noi gran popolo formicolante di Podagrosi e di Paralitici, lebbra schifosa che divora i bei fianchi della montagna…Noi voliamo rapidi contro di voi, fiancheggiati dal galoppo dei leoni, nostri fratelli, e abbiamo alle spalle l’amicizia minacciosa dell’Oceano, che ci segue da vicino per impedire che s’indietreggi!…E’ soltanto una precauzione, poiché non vi temiamo![25]…Ma voi siete innumerevoli!…E potremmo esaurire le nostre munizioni, invecchiando durante la carneficina!
Io regolerò il tiro!…L’alzo a ottocento metri! Attenti!…Fuoco!…Oh! l’ebbrezza di giocare alle biglie della Morte!…E voi non potrete carpircele!
Indietreggiate ancora? Questo altipiano sarà presto superato!…Il mio aeroplano corre sulle sue ruote, scivola sui pattini e s’alza a volo di nuovo!…Io vado contro il vento!…Bravissimi, i pazzi![26]
Continuate il massacro! Guardate! Io tolgo l’accensione e calo giù tranquillamente, a volo librato, con magnifica stabilità[27], per toccar terra dove più ferve la mischia!
“Ecco la furibonda copula della battaglia, vulva[28] gigantesca irritata dalla foia del coraggio, vulva informe che si squarcia per offrirsi meglio al terrifico spasimo della vittoria imminente! E’ nostra, la vittoria…ne sono sicuro, poiché i pazzi lanciano già al cielo i loro cuori, come bombe!…L’alzo a cento metri! Attenti!
Fuoco!…Il nostro sangue?…Sì! Tutto il nostro sangue[29], a fiotti, per ricolorare le aurore ammalate della Terra!…Sì, noi sapremo riscaldarti fra le nostre braccia fumanti, o misero Sole, decrepito e freddoloso[30], che tremi sulla cima del Gorisankar!…
DISTRUZIONE DELLA SINTASSI
IMMAGINAZIONE SENZA FILI
PAROLE IN LIBERTA’
11 maggio 1913
La sensibilità futurista
Il mio manifesto tecnico della Letteratura futurista (11 Maggio, 1912) col quale inventai il lirismo essenziale e sintetico, l’immaginazione senza fili e le parole in libertà, concerne esclusivamente l’ispirazione poetica.
La filosofia, le scienze esatte, la politica, il giornalismo, l’insegnamento, gli affari, pur ricercando forme sintetiche di espressione, dovranno per molto tempo ancora valersi della sintassi e della punteggiatura. Sono costretto infatti, a servirmi di tutto ciò per potervi esporre la mia concezione.
Il Futurismo si fonda sul completo rinnovamento della sensibilità umana avvenuto per effetto delle grandi scoperte scientifiche[31]. Coloro che usano oggi del telegrafo, del telefono e del grammofono, del treno, della bicicletta, della motocicletta, dell’automobile, del transatlantico, del dirigibile, dell’aeroplano, del cinematografo, del grande quotidiano (sintesi di una giornata del mondo) non pensano che queste diverse forme di comunicazione, di trasporto e d’informazione esercitano sulla loro psiche una decisiva influenza.
Un uomo comune può trasportarsi con una giornata di treno, da una piccola città morta dalle piazze deserte, dove il sole, la polvere e il vento si divertono in silenzio, ad una grande capitale, irta di luci, di gesti e di grida…L’abitante di un villaggio alpestre, può palpitare d’angoscia ogni giorno, mediante un giornale, con i rivoltosi cinesi, le suffragette di Londra e quelle di New York, il dottor Carrel e le slitte eroiche degli esploratori polari. L’abitante pusillanime e sedentario di una qualsiasi città di provincia può concedersi l’ebrietà del pericolo seguendo in uno spettacolo di cinematografo, una caccia grossa nel Congo. Può ammirare atleti giapponesi, boxeurs negri, eccentrici americani inesauribili, parigine elegantissime, spendendo un franco al teatro di varietà. Coricato poi nel suo letto borghese, egli può godersi la lontanissima e costosa voce di un Caruso o di una Burzio.
Queste possibilità diventate comuni, non suscitano curiosità alcuna negli spiriti superficiali, assolutamente incapaci di approfondire qualsiasi fatto nuovo come gli arabi che guardavano con indifferenza i primi aeroplani nel cielo di Tripoli.
Queste possibilità sono invece per l’osservatore acuto altrettanti modificatori della nostra sensibilità, poiché hanno creato i seguenti fenomeni significativi:
1. Acceleramento della vita, che ha oggi, un ritmo rapido. Equilibrismo fisico, intellettuale e sentimentale sulla corda tesa della velocità fra i magnetismi contradittorii. Coscienze molteplici e simultanee in uno stesso individuo.
2. Orrore di ciò che è vecchio e conosciuto. Amore del nuovo, dell’imprevisto.
3. Orrore del quieto vivere, amore del pericolo e attitudine all’eroismo quotidiano.
4. Distruzione del senso dell’al di là e aumentato valore dell’individuo che vuol vivre sa vie secondo la frase di Bonnot.
5. Moltiplicazione e sconfinamento delle ambizioni e dei desideri umani.
6. Conoscenza esatta di tutto ciò che ognuno ha d’inaccessibile e d’irrealizzabile.
7. Semi-uguaglianza dell’uomo e della donna, e minore slivello dei loro diritti sociali.
8. Deprezzamento dell’amore (sentimentalismo o lussuria), prodotto dalla maggiore libertà e facilità erotica nella donna e dall’esagerazione universale del lusso femminile. Mi spiego: Oggi la donna ama più il lusso che l’amore. Una visita a una grande sartoria fatta in compagnia d’un banchiere amico, panciuto, podagroso, ma che paga, sostituisce perfettamente il più caldo convegno d’amore con un giovane adorato. La donna trova tutto l’ignoto dell’amore nella scelta di una toilette straordinaria, ultimo modello, che le sue amiche non hanno ancora. L’uomo non ama la donna priva di lusso. L’amante puro e semplice ha perso ogni prestigio, l’Amore ha perso il suo valore assoluto. Questione complessa, che mi accontento di sfiorare.
9. Modificazione del patriottismo diventato oggidì l’idealizzazione eroica della solidarietà commerciale, industriale e artistica di un popolo[32].
10. Modificazione della concezione della guerra, diventata il collaudo sanguinoso e necessario della forza di un popolo.
11. Passione, arte, idealismo degli Affari. Nuova sensibilità finanziaria.
12. L’uomo moltiplicato dalla macchina. Nuovo senso ineccanico, fusione dell’istinto col rendimento del motore e colle forze ammaestrate.
13. Passione, arte e idealismo dello Sport. Concezione e amore del “record”.
14. Nuova sensibilità turistica dei transatlantici
e dei grandi alberghi (convegni e sintesi annuale di popoli e razze diverse). Passione per la città. Negazione delle distanze e delle solitudini nostalgiche[33]. Derisione del divino silenzio verde e del paesaggio intangibile.
15. La terra rimpicciolita dalla velocità. Nuovo senso del mondo. Mi spiego: gli uomini conquistarono successivamente il senso della casa, il senso del quartiere in cui abitavano, il senso della città, il senso della zona geografica, il senso del continente. Oggi posseggono il senso del mondo; hanno mediocremente bisogno di sapere ciò che facevano i loro avi, ma bisogno assiduo di sapere ciò che fanno i loro contemporanei di ogni parte del mondo. Conseguente necessità, per l’individuo, di comunicare con tutti i popoli della terra. Conseguente bisogno di sentirsi centro, giudice e motore dell’infinito esplorato e inesplorato. Da tutto ciò deriva in noi un ingigantimento del senso umano e urgente necessità di fissare ad ogni istante i nostri rapporti con tutta l’umanità e le nostre vere proporzioni
16. Nausea della linea curva, della spirale e dei tourniquet Amore della retta e del tunnel. Abitudine delle visioni in scorcio e delle sintesi visuali create dalla velocità dei treni e degli automobili che guardano dall’alto città e campagne. Orrore della lentezza, delle minuzie, delle analisi e delle spiegazioni minute. Amore della velocità, dell’abbreviazione, del riassunto e della sintesi. “Raccontami tutto, presto in due parole”.
17. Amore della profondità e dell’essenza in ogni esercizio dello spirito.
Ecco alcuni deglì elementi della nuova sensibilità futurista che hanno generato il nostro dinamismo pittorico, la nostra musica antigraziosa senza quadratura ritmica, la nostra Arte dei rumori e le nostre parole in libertà.
Le parole in libertà.
Scartando ora tutte le stupide definizioni e tutti i confusi verbalismi dei professori, io vi dichiaro che il lirismo è la facoltà rarissima di inebbriarsi della vita e di’ inebbriarla di noi stessi: La facoltà di cambiare in vino l’acqua torbida della vita che ci avvolge e ci attraversa. La facoltà di colorare il mondo coi colori specialissimi del nostro io mutevole.
Ora supponete che un amico vostro dotato di questa facoltà lirica si trovi in una zona di vita intensa (rivoluzione, guerra, naufragio, terremoto ecc.) e venga, immediatamente dopo, a narrarvi le impressioni avute. Sapete che cosa farà istintivamente questo vostro amico lirico e commosso?…
Egli comincerà col distruggere brutalmente la sintassi nel parlare. Non perderà tempo a costruire i periodi. S’infischierà della punteggiatura[34] e dell’aggettivazione. Disprezzerà ogni cesellatura e sfumatura di linguaggio, e in fretta vi getterà affannosamente nei nervi le sue sensazioni visive, auditive, olfattive,le sue fulminee riflessioni secondo la loro corrente incalzante. L’irruenza del vapore-emozione farà saltare il tubo del periodo, le valvole della punteggiatura e i bulloni regolari dell’aggettivazione. Manate di parole essenziali senza alcun ordine convenzionale. Unica preoccupazione del narratore: rendere tutte le vibrazioni del suo io[35].
Se questo narratore dotato di lirismo avrà inoltre una mente popolata di idee generali, involontariamente allaccerà le sue sensazioni coll’universo intero conosciuto o intuito da lui. E per dare il valore esatto e le proporzioni della vita che ha vissuta, lancierà delle immense reti di analogie sul mondo. Egli darà così il fondo analogico della vita, telegraficamente, cioè con la stessa rapidità economica che il telegrafo impone ai reporters e ai corrispondenti di guerra, pei loro racconti superficiali. Questo bisogno di laconismo non risponde solo alle leggi di velocità che ci governano, ma anche ai rapporti multisecolari che il pubblico e il poeta hanno avuto. Corrono infatti, fra il pubblico e il poeta, i rapporti stessi che esistono fra due vecchi amici. Questi possono spiegarsi con una mezza parola, un gesto, un’occhiata. Ecco perché l’immaginazione del poeta deve allacciare fra loro le cose lontane senza fili conduttori, per mezzo di parole essenziali ed assolutamente in libertà.
Morte del verso libero
Il verso libero dopo avere avuto mille ragioni d’esistere è ormai destinato a essere sostituito dalle parole in libertà.
L’evoluzione della poesia e della sensibilità umana ci ha rivelati i due irrimediabili difetti del verso libero.
1. Il verso libero spinge fatalmente il poeta a facili effetti di sonorità, giochi di specchi previsti, cadenze monotone, assurdi rintocchi di campana e inevitabili risposte di echi esterni o interni.
2. Il verso libero canalizza artificialmente la corrente della emozione lirica fra le muraglie della sintassi e le chiuse grammaticali. La libera ispirazione intuitiva che si rivolge direttamente all’intuizione del lettore ideale si trova così imprigionata e distribuita come un’acqua potabile per l’alimentazione di tutte le intelligenze restie e meticolose.
Quando parlo di distruggere i canali della sintassi, non sono né categorico, né sistematico. Nelle parole in libertà del mio lirismo scatenato si troveranno qua e là delle tracce di sintassi regolare ed anche dei veri periodi logici. Questa disuguaglianza nella concisione e nella libertà è inevitabile e naturale. La poesia non essendo, in realtà, che una vita superiore, più raccolta e più intensa di quella che viviamo ogni giorno, è come questa composta di elementi ultravivi e di elementi agonizzanti.
Non bisogna dunque preoccuparsi troppo di questi ultimi. Ma si devono evitare ad ogni costo la rettorica e i luoghi comuni espressi telegraficamente.
L’immaginazione senza fili
Per immaginazione senza fili, io intendo la libertà assoluta delle immagini o analogie, espresse con parole slegate e senza fili conduttori sintattici e senza alcuna punteggiatura.
Gli scrittori si sono abbandonati finora all’analogia immediata. Hanno paragonato per esempio l’animale all’uomo o ad un altro animale, il che equivale ancora, press’a poco, a una specie di fotografia. Hanno paragonato per esempio un foxterrier a un piccolissimo puro sangue. Altri, più avanzati, potrebbero paragonare quello stesso fox-terrier trepidante, a una piccola macchina Morse. Io lo paragono invece, a un’acqua ribollente. V’è in ciò una gradazione di analogie sempre più vaste, vi sono dei rapporti sempre più profondi e solidi, quantunque lontanissimi. L’analogia non è altro che l’amore profondo che collega le cose distanti, apparentemente diverse ed ostili. Solo per mezzo di analogie vastissime uno stile orchestrale, ad un tempo policromo, polifonico e polimorfo, può abbacciare la vita della materia. Quando nella mia Battaglià di Tripoli, ho paragonato una trincea irta di baionette a un’orchestra, una mitragliatrice a una donna fatale, ho introdotto intuitivamente una gran parte dell’universo in un breve episodio di battaglia africana. Le immagini non sono fiori da scegliere e da cogliere con parsìmonìa, come diceva Voltaire. Esse costituiscono il sangue stesso della poesia. La poesia deve essere un seguito ininterrotto d’immagini nuove, senza di che non è altro che anemia e clorosi. Quanto più le immagini contengono rapporti vasti, tanto più a lungo esse conservano la loro forza di stupefazione…(Manifesto della letteratura futurista 11 maggio 1912).
L’immaginazione senza fili, e le parole in libertà c’introdurranno nell’essenza della materia. Collo scoprire nuove analogie tra cose lontane e apparentemente opposte noi le valuteremo sempre più intimamente. Invece di umanizzare animali, vegetali, minerali (sistema sorpassato) noi potremo animalizzare, vegetali:zzare, mineralizzare, elettrizzare o liquefare lo stile, facendolo vivere della stessa vita della materia. Es., per dare la vita di un filo d’erba, dico: “sarò più verde domani”. Colle parole in libertà avremo: Le metafore condensate. Le immagini telegrafiche. Le somme di vibrazioni. I nodi di pensieri. I ventagli chiusi o aperti di movimenti. Gli scorci di analogie. I bilanci di colore. Le dimensioni, i pesi, le misure e la velocità delle sensazioni. Il tuffo della parola essenziale nell’acqua della sensibilità, senza i cerchi concentrici che la parola produce .I riposi dell’intuizione. I movimenti a due, tre, quattro, cinque tempi. I pali analitici esplicativi che sostengono il fascio dei fili intuitivi.
Morte dell’io letterario
Materia e vita molecolare
Il mio manifesto tecnico combatteva l’ossessione dell’io che i poeti hanno descritto, cantato, analizzato e vomitato fino ad oggi. Per sbarazzarsi di questo io ossessionante, bisogna abbandonare l’abitudine di umanizzare la natura attribuendo passioni e preoccupazioni umane agli animali, alle piante, alle acque, alle pietre e alle nuvole. Si deve esprimere invece l’infinitamente piccolo che ci circonda, l’impercettibile, l’invisibile, l’agitazione degli atomi, il movimento Browniano, tutte le ipotesi appassionate e tutti i dominii esplorati dell’ultramicroscopia. Mi spiego: non già come documento scientifico, ma come elemento intuitivo, io voglio introdurre nella poesia l’infinita vita molecolare che deve mescolarsi, nell’opera d’arte, cogli spettacoli e i drammi dell’infinitamente grande, poiché questa fusione costituisce la sintesi integrale della vita.
Per aiutare in qualche modo l’intuizione del mio lettore ideale io impiego il carattere corsivo per tutte le parole in libertà che esprimono l’infinitamente piccolo e la vita molecolare.
Aggettivo semaforico
Aggettivo-faro o aggettivo-atmosfera
Noi tendiamo a sopprimere ovunque l’aggettivo qualificativo, poiché presuppone un arresto nella intuizione, una definizione troppo minuta del sostantivo. Tutto ciò non è categorico. Si tratta di una tendenza. Ciò che è necessario è il servirsi dell’aggettivo il meno possibile e in un modo assolutamente diverso da quello usato fino ad oggi. Bisogna considerare gli aggettivi come segnali ferroviari o semaforici dello stile, che servono a regolare lo slancio, i rallentamenti e gli arresti della corsa, delle analogie. Si potranno così accumulare anche 20 di questi aggettivi semaforici.
Io chiamo aggettivo semaforico, aggettivofaro o aggettivoatmosfera l’aggettivo separato dal sostantivo isolato anzi in una parentesi, e diventato così una specie di sostantivo assoluto, più vasto e più potente di quello propriamente detto.
L’aggettivo semaforico o aggettivofaro, sospeso in alto della gabbia invetriata della parentesi, lancia lontano tutt’intorno la sua luce girante.
Il profilo di questo aggettivo si sfrangia, dilaga intorno, illuminando, impregnando e avviluppando tutta una zona di parole in libertà. Se, per esempio, in un agglomeramento di parole in libertà che descrive un viaggio in mare, io pongo i seguenti aggettivi semaforici tra parentesi: (calmo azzurro metodico abitudinario) non soltanto il mare è calmo azzurro metodico abitudinario, ma la nave, le sue macchine, i passeggieri, quello che io faccio e il mio stesso spirito sono calmi azzurri metodici abitudinari.
Verbo all’infinito
Anche qui, le mie dichiarazioni non sono categoriche. Io sostengo però che in un lirismo violento e dinamico, il verbo all’infinito sarà indispensabile, poiché, tondo come una ruota, adattabile come una ruota a tutti i vagoni del treno delle analogie, costituisce la velocità stessa dello stile.
Il verbo all’infinito nega per se stesso l’esistenza del periodo ed impedisce allo stile di arrestarsi e di sedersi in un punto determinato. Mentre il verbo all’infinito è rotondo e scorrevole come una ruota, gli altri modi e tempi del verbo sono o triangolari, o quadrati, o ovali.
Onomatopee e segni matematici
Quando io dissi che “bisogna sputare ogni giorno sull’Altare dell’Arte” incitai i futuristi a liberare il lirismo dall’atmosfera solenne piena di compunzione e d’incensi che si usa chiamare l’Arte coll’A maiuscolo. L’arte coll’A maiuscolo constituisce il clericalismo dello spirito creativo. Incitavo per ciò i futuristi a distruggere e a beffeggiare le ghirlande, le palme, e le aureole, le cornici preziose, le stole e i paludamenti, tutto il vestiario storico e il bric-à-brac romantico che formano una gran parte di tutta la poesia fino a noi. Propugnavo invece un lirismo rapidissimo, brutale e immediato, un lirismo che a tutti i nostri predecessori deve apparire come antipoetico, un lirismo telegrafico, che non abbia assolutamente alcun sapore di libro, e, il più possibile, sapore di vita. Da ciò, l’introduzione coraggiosa di accordi onomatopeici per rendere tutti i suoni e rumori anche i più cacofonici della vita moderna.
L’onomatopea che serve a vivificare il lirismo con elementi crudi e brutali di realtà, fu usata in poesia (da Aristofane a Pascoli) più o meno timidamente. Noi futuristi iniziamo l’uso audace e continuo dell’onomatopea. Questo non deve essere sistematico. Per esempio il mio Adrianopoli Assedio – Orchestra e la mia Battaglia Peso + Odore esigevano molti accordi onomatopeici. Sempre allo scopo di dare la massima quantità di vibrazioni e una più profonda sintesi della vita, noi aboliamo tutti i legami stilistici, tutte le lucide fibbie colle quali i poeti tradizionali legano le immagini nel loro periodare. Ci serviamo invece dei brevissimi od anonimi segni matematici e musicali, e poniamo tra parentesi delle indicazioni come: (presto) (più presto) (rallentando) (due tempi) per regolare la velocità dello stile. Queste parentesi possono anche tagliare una parola o un accordo onomatopeico.
Rivoluzione tipografica
Io inizio una rivoluzione tipografica diretta contro la bestiale e nauseante concezione del libro di versi passatista e dannunziana, la carta a mano seicentesca, fregiata di galee, minerve e apolli, di iniziali rosse a ghirigori, ortaggi, mitologici nastri da messale, epigrafi e numeri romani. Il libro deve essere l’espressione futurista del nostro pensiero futurista. Non solo. La mia rivoluzione è diretta contro la così detta armonia tipografica della pagina, che è contraria al flusso e riflusso, ai sobbalzi e agli scoppi dello stile che scorre nella pagina stessa. Noi useremo perciò in una medesima pagina, tre o quattro colori diversi d’inchiostro, e anche 20 caratteri tipografici diversi, se occorra. Per esempio: corsivo per una serie di sensazioni simili o veloci, grassetto tondo per le onomatopee violente, ecc. Con questa rivoluzione tipografica e questa varietà multicolore di caratteri io mi propongo di raddoppiare la forza espressiva delle parole.
Combatto l’estetica decorativa e preziosa di Mallarmé e le sue ricerche della parola rara, dell’aggettivo unico insostituibile, elegante, suggestivo, squisito. Non voglio suggerire un’idea o una sensazione con delle grazie e delle leziosaggini passatiste: voglio anzi afferrarle brutalmente e scagliarle in pieno petto al lettore.
Combatto inoltre l’ideale statico di Mallarmé,5 con questa rivoluzione tipografica che mi permette d’imprimere alle
parole (già libere, dinamiche e siluranti) tutte le velocità, quelle degli astri, delle nuvole, degli aeroplani, dei treni, delle onde, degli esplosivi, dei globuli della schiuma marina, delle molecole, e degli atomi.
Realizzo così il 4° principio del mio Primo manifesto del Futurismo (20 febbraio 1909): “Noi affermiamo che la bellezza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità”.
Lirismo multilineo
Ho ideato inoltre il lirismo multilineo col quale riesco ad ottenere quella simultaneità lirica che ossessiona anche i pittori futuristi, lirismo multilineo, mediante il quale io sono convinto di ottenere le più complicate simultaneità liriche[36].
Il poeta lancerà su parecchie linee parallele parecchie catene di colori, suoni, odori, rumori, pesi, spessori, analogie. Una di queste linee potrà essere per esempio odorosa, l’altra musicale, l’altra pittorica.
Supponiamo che la catena delle sensazioni e analogie pittoriche domini sulle altre catene di sensazioni e analogie: essa verrà in questo caso stampata in un carattere più grosso di quelli della seconda e della terza linea (contenenti l’una, per esempio, la catena delle sensazioni e analogie musicali, l’altra la catena delle sensazioni e analogie odorose).
Data una pagina contenente molti fasci di sensazioni e analogie, ognuno dei quali sia composto di 3 o 4 linee, la catena delle sensazioni e analogie pittoriche (stampata in un carattere grosso) formerà la prima linea del primo fascio e continuerà, (sempre nello stesso carattere) nella prima linea di ognuno degli altri fasci.
La catena delle sensazioni e analogie musicali (2a linea), meno importante della catena delle sensazioni e analogie pittoriche (1a linea), ma più importante di quella delle sensazioni e analogie odorose (3a linea) sarà stampata in un carattere meno grosso di quello della prima linea e più grosso di quello della terza.
Ortografia libera espressiva
La necessità storica dell’ortografia libera espressiva è dimostrata dalle successive rivoluzioni che hanno sempre più liberato dai ceppi e dalle regole la potenza lirica della razza umana.
1. Infatti, i poeti, incominciarono coll’incanalare la loro ebrietà lirica in una serie di fiati uguali con accenti, echi, rintocchi o rime prestabilite a distanze fisse (metrica tradizionale). I poeti alternarono poi con una certa libertà questi diversi fiati misurati dai polmoni dei poeti precedenti.
2. I poeti, più tardi, sentirono che i diversi momenti della loro ebrietà lirica dovevano creare fiati adeguati di diversissime e impreviste lunghezze, con assoluta libertà di accentazione. Giunsero così al verso libero, ma conservarono però sempre l’ordine sintattico delle parole, affinché l’ebrietà lirica potesse colar giù nello spirito dell’ascoltatore, pel canale logico della sintassi.
3. Oggi noi non vogliamo più che l’ebrietà lirica disponga sintatticamente le parole prima di lanciarle fuori coi fiati da noi inventati, ed abbiamo le parole in libertà. Inoltre la nostra ebrietà lirica deve liberamente deformare, riplasmare le parole, tagliandole, o allungandole, rinforzandone il centro o le estremità, aumentando o diminuendo il numero delle vocali e delle consonanti. Avremo così la nuova ortografia che io chiamo libera espressiva. Questa deformazione istintiva delle parole corrisponde alla nostra tendenza naturale verso l’onomatopea. Poco importa se la parola deformata, diventa equivoca. Essa si sposerà cogli accordi onomatopeici, o riassunti di rumori, e ci permetterà di giungere presto all’accordo onomatopeico psichico, espressione sonora ma astratta di una emozione o di un pensiero puro. Mi si obbietta che le mie parole in libertà, la mia immaginazione senza fili esigono declamatori speciali, sotto pena di non essere comprese. Benché la comprensione dei molti non mi preoccupi, risponderò che i declamatori futuristi vanno moltiplicandosi e che d’altronde qualsiasi ammirato poema tradizionale esige, per esser gustato, un declamatore speciale.
Discorso futurista di Marinetti ai Veneziani (1910)
Il discorso è stato tratto da un comizio tenuto a Venezia L’8 luglio 1910. 800.000 foglietti contenenti questo manifesto furono lanciati dai poeti e dai pittori futuristi dall’alto della Torre dell’Orologio sulla folla che tornava dal Lido. Il gesto fu simbolico: da lì cominciò la campagna dei futuristi contro una Venezia giudicata e percepita alla stregua di una città passatista.
Il Discorso contro i Veneziani, improvvisato dal poeta Marinetti alla Fenice della Serenissima, è motivo di scontro. Da quel momento inizia una terribile battaglia tra classicisti o passatisti, fautori della tradizione e del ritorno al passato, ed i Futuristi, fautori di uno svecchiamento della letteratura e per un rinnovamento totale e costante della società.
Veneziani! Quando gridammo: «Uccidiamo il chiaro di luna!»[37] noi pensammo a te, vecchia Venezia fradicia di romanticismo!
Ma ora la voce nostra si amplifica, e soggiungiamo ad alte note «Liberiamo il mondo dalla tirannia dell’amore! Siamo sazi di avventure erotiche[38], di lussuria, di sentimentalismo e di nostalgia![39]».
Perché dunque ostinarti Venezia, a offrirci donne velate ad ogni svolto crepuscolare dei tuoi canali?
Basta! Basta!… Finiscila di sussurrare osceni inviti a tutti i passanti della terra o Venezia, vecchia ruffiana, che sotto la tua pesante mantiglia di mosaici, ancora ti accanisci ad apprestare estenuanti notti romantiche, querule serenate e paurose imboscate!
Io pure amai, o Venezia, la sontuosa penombra del tuo Canal Grande, impregnata di lussurie rare, e il pallore febbrile delle tue belle, che scivolano giù dai balconi per scale intrecciate di lampi, di fili di pioggia e di raggi di luna, fra i tintinni di spade incrociate…
Ma basta! Tutta questa roba assurda, abominevole e irritante ci dà la nausea! E vogliamo ormai che le lampade elettriche dalle mille punte di luce taglino e strappino brutalmente le tue tenebre misteriose, ammalianti e persuasive!
Il tuo Canal Grande allargato e scavato, diventerà fatalmente un gran porto mercantile[40]. Treni e tramvai lanciati per le grandi vie costruite sui canali finalmente colmati vi porteranno cataste di mercanzie, tra una folla sagace, ricca e affaccendata d’industriali e di commercianti!…
Non urlate contro la pretesa bruttezza delle locomotive dei tramvai degli automobili e delle biciclette in cui noi troviamo le prime linee della grande estetica futurista. Potranno sempre servire a schiacciare qualche lurido e grottesco professore nordico dal cappelluccio tirolese.
Ma voi volete prostrarvi a tutti i forestieri, e siete di una servilità ripugnante!
Veneziani! Veneziani! Perché voler essere ancora sempre i fedeli schiavi del passato, i lerci custodi del più grande bordello della storia, gl’infermieri del più triste ospedale del mondo, ove languono anime mortalmente corrotte dalla luce del sentimentalismo[41]?
Oh! le immagini non mi mancano, se voglio definire la vostra inerzia vanitosa e sciocca come quella di un figlio di grand’uomo o di un marito di cantante celebre! I vostri gondolieri, non potrei forse paragonarli a dei becchini intenti a scavare cadenzatamente delle fosse in un cimitero inondato?
Ma nulla può offendervi, poiché la vostra umiltà è smisurata.
Si sa, d’altronde, che voi avete la saggia preoccupazione di arricchire la Società dei Grandi Alberghi, e che appunto per questa vi ostinate ad imputridire senza muovervi!
Eppure, voi foste un tempo invincibili guerrieri e artisti geniali, navigatori audaci, ingegnosi industriali e commercianti instancabili… E siete divenuti camerieri d’albergo, ciceroni, lenoni, antiquari, frodatori, fabbricanti di vecchi quadri, pittori plagiari e copisti. Avete dunque dimenticato di essere anzitutto degl’Italiani, e che questa parola, nella lingua della storia, vuol dire: costruttori dell’avvenire?
Oh! non vi difendete coll’accusar gli effetti avvilenti dello scirocco! Era ben questo vento torrido e bellicoso, che gonfiava le vele degli eroi di Lepanto! Questo stesso vento africano accelererà ad un tratto, in un meriggio infernale, la sorda opera delle acque corrosive che minano la vostra città venerabile.
Oh! come balleremo, quel giorno! Oh! come plaudiremo alle lagune, per incitarle alla distruzione! E che immenso ballo tondo danzeremo in giro all’illustre ruina! Saremo tutti pazzamente allegri, noi, gli ultimi studenti ribelli di questo mondo troppo saggio!
Così, o Veneziani, noi cantammo, danzammo e ridemmo davanti all’agonia dell’isola di File, che morì come un sorcio decrepito dietro la diga d’Assuan, immensa trappola dalle botole elettriche, nella quale il genio futurista dell’Inghilterra imprigiona le fuggenti acque sacre del Nilo!
Alzate pure le spalle, e gridatemi che sono un barbaro, incapace di gustare la divina poesia che ondeggia sulle vostre isole incantatrici!
Via! non avete motivo di esserne molto orgogliosi!…
Liberate[42] Torcello, Burano, l’Isola dei Morti, da tutta la letteratura ammalata e da tutta l’immensa fantasticheria romantica di cui le hanno velate i poeti avvelenati dalla febbre di Venezia, e potrete, ridendo con me, considerare quelle isole come mucchi di sterco che i mammouth lasciarono cadere qua e là nell’attraversare a guado le vostre preistoriche lagune!
Ma voi le contemplate stupidamente, felici di marcire nella vostra acqua sporca, per arricchire senza fine la Società dei Grandi Alberghi, che prepara con cura le notti eleganti di tutti i grandi sulla terra!
Certo, non è cosa da poco, l’eccitarli all’amore. Sia pure vostro ospite un Imperatore, bisogna che egli navighi lungamente nel sudiciume di questo immenso acquaio pieno di cocci istoriati, bisogna che i suoi gondolieri zappino coi remi parecchi chilometri di escrementi liquefatti, in un divino odor di latrina passando accanto a barche ricolme di belle immondizie, tra equivoci cartocci galleggianti, per poter giungere da vero Imperatore alla sua mèta, contento di sé e del suo scettro imperiale!
Ecco, ecco quale fu la vostra gloria fino ad oggi, o Veneziani!
Vergognatevene! Vergognatevene! e gettatevi supini gli uni sugli altri, come sacchi pieni di sabbia per formare il bastione, sul confine, mentre noi prepareremo una grande e forte Venezia industriale, commerciale e militare sull’Adriatico, gran lago italiano!
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[1] Il vecchio sole europeo è quel passato ipocrita, melenso, assolutamente introspettivo, che è prevalso sino ad allora in Italia e nei principali Paesi europei. Quel sole, ora, è ebbro e barcolla: ha bevuto e consumato un lirismo, capace solo di ubriacare, ovvero di anestetizzare il dolore ed ottundere la coscienza per non guardare la realtà, per non aprire gli occhi di fronte ai crimini che sono stati perpetrati dall’uomo nel corso del tempo.
[2] Marinetti adotta sistematicamente un linguaggio battagliero e bellico.
[3] Ritorna la metafora della guerra. Ancora una volta bisogna prestare attenzione a non equivocare il senso dell’operazione di Marinetti: il discorso è e deve rimanere ancorato ad un discorso strettamente letterario-esterico e non può né vuole inscriversi in un ambito politico. La guerra di cui egli scrive è quella che l’intellettuale futurista deve combattere contro la tradizione, contro quel passatismo imperante, contro l’Accademia, contro il canone consacrato dal tempo.
[4] Come si era già spiegato, con il reiterato disprezzo della donna Marinetti non intende assolutamente riferirsi alla donna come categoria sociale, ma alla poesia lirica tradizionale d’amore, che metteva al centro la donna.
[5] Ci avviciniamo al nucleo del Manifesto. Marinetti inizia ad elaborare. Noi preferiamo la morte violenta: vogliamo vivere a costo di essere animali da preda piuttosto che praticare e conformarci a questa letteratura malata. Occorre sbeffeggiare tutto ciò che è stato consacrato dal tempo: se si vuole spazzare via tutto questo marciume, allora si deve combattere una guerra.
[6] Occorre prestare attenzione alle parole, che sono pesanti: se devono agire nel sociale, esse devono ferire e lasciarci il segno sulla pelle. Bisogna ricominciare a vivere, a sentire e a provare con intensità l’abitudine all’entusiasmo e l’abbandono alla vertigine.
[7] Rimane un’ondata di luce: sarà proprio quest’ultimo abbaglio che alimenterà l’ardore futurista e ne guiderà la battaglia contro vecchi schemi e pregiudizi.
[8] Contrariamente al passato, tutte le metafore proprie della scrittura futurista sono metafore forti che suggeriscono un effetto di dinamismo totale. Esse si inseriscono all’interno di un concetto della letteratura e delle arti rivoluzionario che intendono sradicare con forza tutto ciò che ci ha chiuso, fino ad ora, costringendoci in luoghi asfittici. L’autore insiste quella necessaria ed urgente operazione di sradicamento violento, quasi una vera e propria esplosione.
[9] La vis polemica è il Leit Motiv che anima tutto il componimento: è necessario abbattere per ricostruire, è necessaria una pars destruens se vi vuole baconiniacamente impostare una pars construens, una progettualità etica forte.
[10] Ancora la metafora del mondo moderno: il Futurismo si pronuncia a favore della macchina, della velocità, della tecnologia e ad essa inneggia, ispirandosi in itinere.
[11] La terra agonizza perché è costretta a sopportare il peso mortifero della tradizione e dell’ipocrita sicurezza che viene dal passato e che viene alimentata dalle élite intellettuali dei classicisti.
[12] Il fanale dell’automobile è smagliante: l’aggettivo scelto da Marinetti sottende la forte ammirazione che egli nutriva nei confronti della modernità e dei suoi prodotti.
[13] Il Decadentismo passa attraverso la crisi dell’Io: con la prosa poematica dell’Ulisse (1922), Joyce, che assume in toto il linguaggio decadentista, mette in Crisi l’Io. Inoltre, l’indiscusso capolavoro dello scrittore irlandese, per altro uno dei libri fondamentali della letteratura moderna, scardina le coordinate tradizionali di spazio e tempo e presenta un impareggiabile complessità stilistica.
[14] I guardiani sono i guardiani della tradizione, custodi di un sapere tramandato nei secoli e consacrato dal tempo. Se si vuole abbattere tutto ciò che ci ha preceduto occorre superare i guardiani attraverso un gesto violento.
[15] Metaforicamente i morti sono i passatisti che rinchiudono l’arte nei musei. L’Avanguardia è per il rinnovamento totale e costante.
[16] Le parole scelte da Marinetti sono forti e mai casuali: egli seleziona termini pregnanti per veicolare la propria metafora, per indicare l’operazione violenta di scardinamento della tradizione e dei canoni classici, che l’Avanguardista deve promuovere.
[17] La frase è quasi criptica e non può essere compresa in altro modo se non riportandola alla metafora iniziale di Marinetti: bisogna uccidere la poesia lirica tradizionale, quella che fino ad oggi ha dominato la scena poetica del nostro mondo letterario. Il Futurismo è il movimento dell’espressione del dinamismo del mondo moderno: esso intende cantare la civiltà della macchina, perché solo una velocità elevata garantisce una diversa percezione del paesaggio, da cui si possono attingere sensazioni nuove dal mondo della scienza e della tecnica.
Questi contenuti devono essere espressi in un nuovo modo, perciò Marinetti abolisce il culto della tradizione, nelle poetiche e nel linguaggio, rifiuta, rigettandola, la sintassi e le parti qualificative del discorsi, propone di usare le «parole in libertà», cioè senza alcun legame grammaticale e sintattico fra loro, infine sostiene la necessità di usare i più disparati elementi linguistici, come espressioni dialettali, neologismi ed onomatopee, per esprimere immediatamente il meccanicismo psichico dell’impressione.
L’antipassatismo, e il suo correlato, ovvero l’ammirazione per la modernità sono i tratti ideologici salienti dei manifesti marinettiani. Uccidere il chiaro di luna è l’emblema della volontà di recuperare l’unità di arte e vita, eliminando tutti i ciarpami e gli ingombri di una cultura ritenuta irrimediabilmente arretrata.
[18] Trattasi di un binario stravagante perché la logica futurista, ergo avanguardista, non può inscriversi in un’ottica tradizionale né vuole conformarsi alla logica rigorosamente matematico-sequenziale di derivazione filosofica greca.
[19] Il passato è asmatico, la tradizione respira male perché il mondo, di cui essa si è fatta promotrice e portavoce, è polveroso, vecchio, inquinato da quel lirismo introspettivo incapace di agire, di progettare, di farsi fautore di un anelito etico e libertario autentico, lontano da qualsivoglia velo di ipocrisia.
[20] I Futuristi vorrebbero avere delle ali per poter volare sempre più in alto. La metafora viene sempre riportata alla modernità: quali ali migliori, belle e più efficaci ci potrebbero mai essere se non quella degli aeroplani, simbolo per eccellenza della modernità e delle conquiste che l’uomo ha perseguito in seno ad essa?
[21] La metafora del vento è particolarmente efficace per rappresentare l’anelito ed il fervore ideologico che anima artisti e scrittori avanguardisti nella loro operazione di scardinamento della tradizione dominante e di negazione totale ed assoluta del passato. Tuttavia la metafora del vento sarebbe di per sé incompleta se mancasse la guerra contro i vecchi canoni estetici, non avrebbe alcun senso se non ci fosse un’utopia che la animasse, guidandola.
[22] Possiamo chiederci chi siano i pazzi. I pazzi, ovvero coloro che non si conformano a quello che Sigmund Freud chiamerebbe il principio di realtà, sono i Futuristi, alias gli Avanguardisti, ovvero coloro che non considerano normale il principio intersoggettivo dominante, ma che si fanno promotori, anzi accaniti sostenitori, di un tipo di logica nuova, del tutto rivoluzionaria.
[23] Si ritorna alla metafora della primordialità e, con essa, delle belve fameliche che si orientano grazie al proprio fiuto ed istinto. Queste belve non sono né tranquille né pacifiche e non potrebbero neppure esserlo, visto che hanno fame e lottano per la propria sopravvivenza e libertà.
[24] Non ci sta parlando di una guerra nel senso etimologico del termine, sebbene questo equivoco abbia dato adito alla scrittura e diffusione fiumi di saggi, che hanno volutamente travisato il senso delle parole di Marinetti. Egli intende combattere con l’arma della poesia, ovvero con un verso forte, aggressivo, combattivo, diretto al pulsare della via e al suo costante rinnovamento.
[25] L’intellettuale futurista non teme nulla, neppure la morte. Egli combatte con coraggio la propria guerra senza mai indietreggiare.
[26] Ritorna con forza la figura del pazzo, ovvero di colui che decide di inscriversi in un’ottica altra e che, a motivo di questo, non viene capito e viene tacciato per pazzo. Il pazzo è, in questo caso, la vittima dell’ostracismo della società benpensante e delle élite intellettuali dominanti.
[27] I Futuristi si ribellano violentemente contro la stabile tranquillità, con quella che in precedenza Marinetti aveva definito come l’orribile guscio della saggezza: essi preferiscono vivere una vita pericolosa e rischiare di morire, perché questo significa vivere un’esistenza vera, autentica, di valore.
[28] Marinetti propone, a questo punto, la metafora della vulva. Normalmente si dice che egli sia e che adotti un linguaggio maschilista, ma, se fosse stato davvero così, egli avrebbe usato la metafora del pene, non lo ha fatto, ha scelto la vulva, che diviene un campo di battaglia, un’autentica sorgente di energia: la donna è Dioniso per eccellenza, la donna è la matrice completa che ha tutto.
[29] Marinetti resta consapevolmente ancorato alla metafora della guerra, ovvero di quella lotta all’ultimo sangue che l’Avanguardista deve intraprendere per liberarsi dai vincoli di una tradizione ipocrita, sterile e vuota. Tale conflitto rappresenta la conditio sine qua non per l’impostazione di una nuova progettualità.
[30]Il sole frettoloso è uno degli ossimori tipici del Petrarca. Se, da un lato, Marinetti associa la vulva all’innovazione e all’energia vitale, dall’altro egli si scaglia violentemente contro quel femminismo che viene dal Petrarca. Normalmente la metafora solare è riconducibile alla donna, ergo la riproposizione del sole rappresenta un ritorno al passatismo, ad un sentimentalismo che non ha senso nella lotta della vita. Marinetti, infatti, sostiene che ci si debba imporre o, almeno, cercare di farlo. Per questo motivo egli adotta sempre e costantemente un linguaggio bellico.
[31] Marinetti mira ad una rivoluzione globale, anche grammaticale. Le ragioni della sua scelta sono imputabili al cambiamento delle condizioni sociali e politiche, in cui la letteratura si colloca. Per questo motivo, dovranno cambiare anche le forme della scrittura devono evolvere. In Particolare, Marinetti si focalizza reiterativamente sull’importanza delle onomatopee per riproporre i rumori della materia in movimento.
[32] Per quanto saggi e testi critici sostengano strenuamente le simpatie di Marinetti per il Fascismo, gli scritti del poeta, qui ed in altri testi programmatici, sottendono l’ansia libertaria del poeta: Marinetti si pronuncia reiterativamente a favore di un proletariato libero, Egli invita, poi, egli intellettuali ad andare tra gli operai, in mezzo al popolo, e ad uscire dal quel classicismo elitario, che non ha alcun contatto né legame con la società, in cui egli vive.
[33] Marinetti allude all’atteggiamento passatista: le nostalgie storiche, in realtà, non sono autentiche, ma ipocriti movimenti di ritorno al passato al fine esclusivo e mercificante di un commercio su di esso.. La battaglia che Marinetti assume è terribile riguardo a tutti, ci sono manifesti su ogni categoria e contesto sociale, in particolare ricordiamo quei documenti in cui egli si scaglia violentemente contro preti e contro la scuola.
[34] Marinetti invita gli scrittori, poeti o narratori, a liberare le parole dalla punteggiatura, che è, poi, la scelta adottata da altri autori di fama internazionale, come l’irlandese Joyce.
[35] Il lirico, segue il flusso dionisiaco e si lascia andare alla violenza delle emozioni, come il narratore sconvolto da un evento improvviso.
[36] A questo punto si ha qualche chiarimento sul lirismo e a che cosa Marinetti lo associa. In particolare, questi brevi periodi sono occasione per noi di riflessione dicotomica e contrastiva sulle differenze che intercorrono tra il poeta, così come è inteso in conformità alla nostra tradizione, ed il lirico. Petrarca è un poeta, ma non un lirico. Il poeta moderno è colui che fornisce risposte singolari e locutorie alla propria scomparsa, ovvero egli si definisce antipoeta per la scomparsa del poeta come figura. Egli non è poeta perché è costretto a fare questo: vivendo in una condizione di esiliato nel mondo, il poeta moderno cerca una possibilità per ristabilirsi in esso, ma, per far questo, gli è necessario recuperare lo slancio vitale. Il poeta di un tempo parlava del proprio mondo, si riferiva alla propria donna, al proprio studio, a sé e si esprimeva sempre in prima persona. Il poeta lirico è colui che ha ucciso il poeta che ha in sé e che aspira all’infinito. Il lirismo è la voce a cui l’esperienza infinita del linguaggio che ricerca la propria situazione di esiliato nel mondo. Non ha più alcuna certezza. Il lirismo nasce dal Romanticismo. Ogni volta che il poeta si esprime è come se esprimesse il proprio statuto morale. La poesia è moralizzatrice, il lirismo non lo è, perché esso si perde nell’infinito. Il poeta lirico non intende essere né Dio né il poeta vate: egli si sente una nullità, guarda ostinatamente verso l’Assoluto, tentando di ristabilirsi in esso nell’enigma della propria condizione. In La voce di Orfeo. Saggio sul lirismo (Hestia edizioni, 1994), Jean-Michel Maulpoix definisce il lirismo: poco studiata fino ad oggi, la nozione di lirismo è rimasta misteriosa, vaga, sospetta. In effetti, oltre che un modo di scrivere, essa designa un modo d’essere. Interessa lo status della poesia, come anche le sue ripercussioni sulla via del sublime o del canto; recepito negativamente, la immobilizza nel pathos o nell’enfasi.
Questo termine è, in fin dei conti, contraddittorio e sfuggente quanto l’esperienza poetica stessa. In questo libro, il lirismo è oggetto di un saggio che si interessa alla sua storia, partendo dalla mitologia classica, per approdare alla poesia contemporanea, ne abbozza la genealogia, ne considera la tematica, interrogando alcuni dei motivi più singolari che spingono la creatura umana a comporre opere poetiche.
[37] La metafora della guerra è sempre ricorrente.
[38] Marinetti ritorna alla metafora della donna: egli afferma che il femminismo ed il sentimentalismo, anziché considerare la donna alla stregua di una grande energia, la svilisce e la rende occasione di una poesia d’amore assolutamente vuota, priva di progettualità, incapace di irrompere nel mondo per cambiarlo.
[39]Marinetti esorta tutti a cambiare atteggiamento, in particolare egli sostiene che si debba smettere di sfruttare le donne solo sul piano sentimentale o erotico in letteratura e poesia. L’affermazione è particolarmente calzante se riferita alla Serenissima: infatti Venezia era forse, storicamente, il luogo più libertino d’Europa.
[40] Marinetti non pensa a contemplare il Canal Grande, ma lo considera alla stregua di un ponte tra le soluzioni sociali in grado di migliorarci e di migliorare la nostra società.
[41] Marinetti si riferisce a tutti quei poeti intimistici continuano a concentrarsi su se stessi, sul proprio Ego e, con esso, sul proprio mondo. Questi presunti poeti, talora, presumono di essere dei vati e vogliono sostituirsi a Dio, anziché scendere per strada a fare l’umile lavoro di denuncia.
[42] Tutte queste energie vanno canalizzate.