ODE MARITTIMA
Solo, sul molo deserto, in questo mattino d’estate,
guardo verso la barra, guardo all’Indefinito,
guardo e mi appaga vedere,
piccolo, nero e chiaro, un piroscafo entrare.
E’ molto lontano, nitido, classico a suo modo.
Nell’aria distante lascia dietro di sé l’orlo vano del fumo.
Sta entrando, e il mattino entra con lui, e sul fiume,
qua, là, si sveglia la viat marittima,
si drizzano le vele, avanzano rimorchiatori,
spuntano piccole barche dietro le navi che stanno nel porto.
C’è un avaga brezza.
Ma la mia anima sta con quel che vedo meno,
col piroscafo che entra,
perché esso sta con la Distanza, col Mattino,
con il senso marittimo di quest’Ora,
con la dolcezza dolorosa che sale in me come una nausea,
come un cominciare e stomacarsi, ma nello spirito.
Guardo da lungi il piroscafo, con una grande indipendenza di anima,
e dentro di me un volano comincia a girar, lentamente.(…)
Strano iniziare a sognare di mari lontani, pronti in battello per farsi trasportare sulle onde del mare, da dolci note poetiche, attacco quasi romantico, di nostalgia allo iodio, più avanti favoloso di pirati, con richiami al grande Moby Dick, e poi sentirsi sballottare da un maremoto di umane sciagure e tirannidi…
Eccolo l’effetto dirompente di Ode Marittima, almeno su di me è ovvio, che all’inizio mi sono sentita cullare e poi improvvisamente schiacciare, squartare e sbattere in faccia tutto il male del mondo, tutta quella sporcizia violenta e violentata che l’umanità ha nascosto tra le piaghe della storia.
La storia, certo! Quella scritta dai vincitori occidentali e non certo dai vinti del sud del mondo, sconfitti, schiavizzati, derubati, stuprati e ridicolizzati.
Ascoltavo attonita il maestro Gaetano Delli Santi, la sua voce d’avanguardia che leggeva Pessoa, il portoghese, Pessoa del 1915 all’imbocco della grande guerra, col sapore in bocca del sangue dei bambini uccisi o di quello dei poco più che bambini con le armi in mano.
Pessoa ci seduce prima con i richiami del mare amato, del sole in faccia e degli spruzzi d’acqua in barca: viaggio che inizia dal porto di Lisbona e che finisce dentro la terra, dentro la storia dei portoghesi conquistatori, esportatori di civiltà allora, come lo è oggi tutto l’occidente.
E si vede l’Africa e si vedono le Americhe, non più i loro paesaggi naturali, il cielo basso e le foreste immense, ma sangue e fango, violenza e miseria.
Abbiamo esportato la nostra civiltà!
Pensavo fosse un’invenzione del moderno marketing, ma non siamo in grado di inventare più nulla con il nostro sguardo perennemente volto al passato. Così l’Afghanistan e l’Iraq altro non sono che territori nuovi, con vecchie dinamiche di espropriazione di terre e risorse, sotto false e meschine spoglie. Così i conquistatori partivano alla volta di nuovi mondi, come pirati pronti ad uccidere per denaro, potere, ricchezze. Così tornavano in patria, portandosi dietro ameni souvenir di capi tribù imbellettati e comprati, o nudi e ricoperti dei soli loro tatuaggi. E le madame di corte ridevano dietro il ventaglio, rosseggianti di pudica vergogna per quegli uomini neri di pelle, neri di segni, nudi e impacciati, che esibivano tutta la loro natura in faccia a chi, per rubargli l’anima e la terra, si vantava di una civiltà acquisita e superiore.
La storia di scuola narra ben altro o meglio omette, così che possa ripercorrere sempre lo stesso cerchio, con le stesse dinamiche, con la stessa violenza a discapito di chi si trova per fato o errore dalla parte sbagliata del mondo.
Pessoa ci ricorda il nostro passato di criminali, che poi è anche la nostra coscienza di oggi.
Valeria Mulas