di francesco muzzioli
La letteratura è una cosa che non si è mai saputa (o potuta) definire una volta per tutte. Tanto più quando, come oggi, non ricevendo più molto credito nei valori e nelle aspirazioni degli uomini, la scrittura letteraria perde molto del suo carattere istituzionale, guadagna però, in cambio, una grande libertà di uso. Emarginata dalla Comunicazione Ufficiale e costretta nella maggior parte dei casi a una circolazione semi-clandestina, proprio perché non subisce altra censura che il silenzio, allora la cosa chiamata letteratura, quando la si riesce ad incontrare per qualche accidente o coincidenza o caso fortunato, si rende fruibile senza limitazioni, in tutte le sue possibili direzioni e risvolti. E può sprigionare, in tali casi, tutti i suoi molteplici “piaceri” che si trovano ai diversi livelli del testo. Sì, perché non c’è uno e un solo “piacere del testo”: a saperli trovare, ce ne sono molti. C’è il piacere del suono e del ritmo (al livello dove la parola sconfina nella musica); c’è il piacere della scoperta del significato, che si forma in una complessa rete di rapporti, di rimandi e di sfumature, sotto la superficie dell’enigma; c’è il piacere della soggettività problematica, in cui possiamo proiettare e confrontare la nostra stessa crisi e, finita la lettura, capire qualcosa di più di noi stessi; e c’è il piacere di vibrare in sincrono con una carica polemica che ci trasmette energie nel senso della trasformazione dell’esistente. La letteratura, questo oggetto misterioso, sfuggito a tutte le catture, deve la sua straordinaria plasticità e disponibilità a una fondamentale doppiezza: perché, da un lato, si presenta come spazio individuale, proprio quello dove la soggettività personale può finalmente esprimersi ed esattamente nel modo — dissimile da tutti gli altri — con cui si appropria del linguaggio e lo modifica (nei migliori casi: lo incrina, lo contorce, lo esaspera; oppure: lo moltiplica): e parlo di espressione nel senso più “corporeo” del termine, come impronta lasciata nella materia verbale, anche in quella più resistente dei canoni e dei generi prestabiliti; dall’altro lato, essa rimane tuttavia uno spazio collettivo, lo spazio di una comunicazione con l’altro e di un interscambio di esperienze e di opinioni, uno spazio, comunque sia, aperto (anche quando c’è una conclusione “forte”, malgrado tutto c’è sempre qualcosa di non-finito: la possibilità di ricominciare da capo): Salman Rushdie, uno dei più importanti scrittori attuali, migrante e perseguitato, ha scritto di recente che la scrittura «non rivendica particolari diritti, se non quello di essere il palcoscenico sul quale si possono tenere i grandi dibattiti della società». All’intersezione di queste due linee di tendenza si trova la questione dell’“io”: le scritture letterarie si incentrano proprio sulla costruzione di un “io” (non possono nascondere di doversene costruire uno, che non è — lo sappiamo — del tutto corrispondente all’io reale dell’autore), e quindi possono servire a vaccinarci dall’idea costrittiva di una identità naturale, assunta per nascita e mitologicamente immutabile.
La letteratura, nel suo duplice fondamento di espressività e di problematicità, trasmette dinamismo intellettuale ed emotivo, addestra all’agilità mentale e alla disponibilità morale, potremmo dire che educa alla libertà e insegna un modo di pensare “radicale”. Ma perché faccia questo, ovviamente, bisogna saperla ascoltare e accostare; molte volta non basta leggere (anche se, di certo, il primo impatto è decisivo), ma occorre leggere e rileggere. Tanto vale che lo dica: occorre lo studio. Ma lo studio (questo spauracchio, che siamo portati a immaginare nelle vesti scure e polverose di un guardiano che immobilizza e spegne la scintilla vitale) non va inteso come la memorizzazione passiva di valori dati per scontati. Lo studio comporta “applicazione”, è vero, però non di quella monotona e costrittiva: significa “applicarsi”, però anche “applicare” il testo, e cioè riportare le sue questioni alle nostre realtà. Far risuonare il testo dentro la nostra prospettiva vitale. È un gaio studio, allora, in cui i molteplici aspetti della cosa letteraria possono essere messi in moto tutti: i procedimenti tecnici possono venire tradotti nel “gioco” che seziona l’oggetto-testo, lo scompone nelle sue parti, ne deduce strumenti per giochi ulteriori di riscritture e di esercitazioni “creative”; i contenuti tematici, dal canto loro, possono offrire nodi di approfondimento e di discussione, di confronto — sia che si tratti di confrontare le posizioni che si divaricano adesso, sia che si stabilisca un contatto con la storia precedente, valutandone le somiglianza e le differenze con noi. Non è un caso che i teorici e i critici della letteratura vadano sempre di più riaccostando e riabilitando il terreno dell’antica retorica (uscita un po’ malconcia dalla temperie romantica e dal mito dell’assoluta “originalità”): perché la retorica unisce strettamente la strategia sociale e il linguaggio specifico, li ha sempre tenuti insieme in quanto rivolta a un preciso scopo di persuasione dell’uditorio e, nello stesso tempo, dotata di un repertorio di “figure” (di meccanismi, di movimenti), descrivibili e riproducibili da tutti. La retorica può essere utilmente rimessa in corso, magari spostandola sui testi attuali, addirittura per farci entrare dentro la vitalità più antagonista, quella dei testi della “modernità radicale” e dell’avanguardia.
Insegnare l’avanguardia? Ma non era l’avanguardia, nella polemica dei futuristi, agli antipodi della mentalità scolastica? Il fatto è che qualcosa è cambiato dai tempi di quelle prime provocazioni: scacciata ormai quasi completamente dalle leggi di ferro del mercato editoriale (che non può sfornare altro che libri “stagionali” e vede come il fumo agli occhi una scrittura destinata ad essere compresa lentamente, nel tempo), la letteratura di ricerca — l’unica veramente viva — può trovare spazio solo nella scuola. Se mi si consente una forma di battuta o di slogan: la letteratura oggi sta meglio tra i banchi che tra le banche. La scuola (finché è in grado di farlo) salva la letteratura; reciprocamente, la letteratura aiuta la scuola, perché collabora, anche attraverso i molteplici “piaceri” che dicevo, a fare della scuola lo spazio assolutamente indispensabile di un sapere critico, se non addirittura di una “controcultura”; l’unico spazio ancora non del tutto colonizzato dalla “cultura di plastica” del mercato. E una società civile degna di questo nome dovrebbe capire che senza questo spazio “diverso” e diversificato è proprio lo spessore culturale e la salute cerebrale dei futuri cittadini che verrebbero messe a rischio, con detrimento, alla fine, del mercato stesso.
Non per caso i testi letterari, nella scuola, ricevono spesso il nome di materiali. Se la letteratura è una cosa di incerta definizione, essa è quindi disponibile all’uso. Si dà il caso che la critica dell’ideologia stordente e confusiva trasmessa nei canali della comunicazione di massa, anche quando si riuscisse a proporre con rigore, non è sufficiente, tale è l’investimento suscitato dai nuovi “idoli” mediatici; c’è un assoluto bisogno di presentare in positivo, in parallelo alla critica negativa, un immaginario alternativo capace di calamitare interesse, stornandolo appunto dall’ammasso del conformismo: accanto alla pars destruens è necessaria una pars construens. Per questa nuova elaborazione, i materiali forniti dalla letteratura appaiono di ottima qualità — conoscono anche i loro limiti, debitamente ironici e autocritici come sono molti di essi — e pronti ad essere adoperati, con libertà, secondo le esigenze delle situazioni concrete, per trasformare lo studio nella produttiva ricerca di segni fuori del codice.