per una sana editoria

di Gaetano delli Santi

Che cosa implica essere oggi scrittore?
Ormai alle soglie del terzo millennio ci pare doveroso ed essenziale porsi per l’ennesima volta domande come le seguenti: “che cosa implica essere oggi scrittore?”, “morte o resurrezione o sopravvivenza della scrittura?”, “nel mare della comunicazione, qual è la funzione dello scrittore?”.
Se la spontaneità fosse ritenuta un’apprezzabile virtù in un mondo che solitamente ritiene strategico muoversi tra compromessi (e diciamocelo fuor dei denti: il più delle volte raggiunti a furia di brighe e artificiosi aggiramenti, e non di rado attraverso una ingarbugliata politica sporca), arriveremmo subito al punto dichiarando:
in un mondo di indubbia neutralizzazione dei valori umani, ottenuta ora mediante la spettacolarizzazione delle catastrofi sociali (le quali con l’incontro dei mass-media rientrano a rigore nel gran caravanserraglio del mercato del consumo), ora mediante l’effimera superficie della disseminazione dei falsi valori per i quali (pur di ottenerli e possederli) si è così tanto ipnotizzati e manipolati che ogni altra cosa (guerre, ladreríe a danno di una intera comunità sociale, delitti impuniti, cretinismo e stupidità vendute a caro prezzo dal potere televisivo-massmediale, ecc. ecc.) passa in second’ordine se non addirittura inosservata, insomma in un mondo cosiffatto diremmo che ci pare fin troppo ovvio che una delle funzioni dello scrittore oggi (e non solo dello scrittore, ma di tutti coloro che si sentono parti lese da una siffatta società) debba essere, fra le altre, anche e soprattutto quella di indignarsi, infuriarsi, sdegnarsi, denunciado e contraddicendo tutta quella avidità da subdolo cannibalismo, scientificamente organizzata dal grande capitalismo.
Ma la spontaneità in questo caso risulterebbe avventatezza, nutrita da scarso rigor logico. Chi potrebbe garantirci infatti che l’esigenza di vedere l’intellettuale italiano impegnarsi sul piano civile sia un desiderio incondizionatamente sentito dagli intellettuali stessi? E già! …a ben vedere chi più chi meno tutti sottostiamo (e ne godiamo) all’acrobatico scenario di codesta immensa viscida piaccicosa superficie, per la quale l’immaginario collettivo si adegua ai suoi interessi e imposizioni. Occorre ricordarsi che le persone ci tengono a farsi riconoscere “nelle loro merci: trovano la loro anima nella loro automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, nella casa a due livelli, nell’attrezzatura della cucina…” (Marcuse).

“I bisogni «falsi»” , per dirla con Marcuse, “sono quelli che vengono sovrimposti all’individuo da parte di interessi sociali particolari cui preme la sua repressione: sono i bisogni che perpetuano la fatica, l’aggressività, la miseria e l’ingiustizia. (…) La maggior parte dei bisogni che oggi prevalgono, il bisogno di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni.
Tali bisogni hanno un contenuto e una funzione sociali che sono determinati da potenze esterne, sulle quali l’individuo non ha alcun controllo; lo sviluppo e la soddisfazione di essi hanno carattere eteronomo. Non importa in quale misura tali bisogni possano essere divenuti quelli propri dell’individuo, riprodotti e rafforzati dalle sue condizioni di esistenza; non importa fino a qual punto egli si identifica con loro, e si ritrova nell’atto di soddisfarli: essi continuano ad essere ciò che erano sin dall’inizio, i prodotti di una società i cui interessi dominanti chiedono forme di repressione.” (Herbert Marcuse “L’uomo a una dimensione”)

Dov’è la nostra protesta?
E la cosa ancor più raccapricciante è che fra tutta codesta domanda di “falsi bisogni” vi è sempre stata e sempre vi sarà una umanità flagellata e dannata, scempiata dal maltrattamento, dal patimento, dalla sofferenza, dalla fame e da ogni altra forma di martirio. Offesa oppressa e percossa dall’indifferenza di tutti, eccola imbroccare la strada della rassegnazione. E noi intellettuali cosa facciamo perché tale rassegnazione non si trasformi in accettazione passiva di qualsivoglia sfruttamento, ma in coscienza ed autocoscienza in grado di reagire? Verrebbe da chiedersi dov’è la nostra protesta, dov’è la nostra ribellione nei riguardi di tutte quelle gabbie d’alto legnaggio, progettate e imposte dal grande capitalismo che tutto a sé sottomette… Ci siamo mai opposti (in qualità di scrittori e intellettuali) a ogni minaccia di guerra? Ci siamo mai opposti a ogni forma di razzismo e di ingiustizie sociali? Odi, segregazionismi, antisemitismi, intolleranze, pregiudizi razziali (non vedete?) dirupano scaricati nella carne viva di anime che, di fronte a chi ha avuto il grande privilegio (e che privilegio!) di poter incorniciare il proprio faccione tra la borsetta di una diva e la sfiziosa logorrea della quotidiana civiltà del consumo, si riducono a una disperata rivolta senza voce a cui non resta che andar gironi per la propria dignità massacrata.
In mezzo a tutto questo, caro scrittore, noi non sappiamo neppure quale sia la tua vera opinione, mai ti degnasti di scendere in strada a dire la tua.

E chiediamoci con franchezza: che fa lo scrittore… quando fuori della sua ispirazione unta da Dio… v’è una umanità che, ridotta a una moltitudine di lanugine (tale forse appare a tutti coloro che la guardano dall’alto, seduti su vaporosi scanni politici e massmediali), subisce da viva le esequie della propria morte?
A costo d’essere estremamente e disgustosamente retorici, ci chiediamo: dov’è lo scrittore quando tutto svàgola in robberíe? quando fúmicano discordie nell’avviticchiamento dei misfatti? quando bambini seviziati e massacrati e boccheggianti e prossimi alla fine per via di un insulso embargo o di una atroce guerra… sono ridotti a polvere scorticata? quando l’alito di un’aria putrida ci porta a intossicarci? quando un cordiglio di rettili politicastri e volta faccia ci sbarra la vista mettendo tempo e spazio in mano ad altri infídi cacapensieri? quando dal colmigno d’una civetteria televisiva… i soprusi, le oppressioni, le prepotenze, gli abusi, le ingiustizie sociali vanno a finire in sghignazzate, in sguaiate risate, in balli e ballonzoli, in sollazzi e trastulli… a ridurci a una greggia pastriccianaccia e qualunquista giacente in pastiglie di consolazioni?
Già! che fa lo scrittore? Vogliamo essere sinceri? Ecco: scrive (anche per fare onore alla tradizione) parole inutili e inoffensive, e, piangendo jacinti sfoliati, porta coverchio d’innamorato; s’annida nella sua divina ispirazione; vede quel che non vede; dorme e va dolendosi sul romantico guanciale del suo “Io” ispirato, offeso da un amoruccio non corrisposto.

E qual è il suo unico grande cruccio? Non certamente quello di progettarsi e rinascere sotto l’ègida utopica di un “mandato sociale”. Lo vediamo invece intrallazzare e far di tutto (come ad esempio strisciare ai piedi di Caio e Sempronio) pur di riuscire a pubblicare il frutto del suo Magno Spirito. E in questo ciancicchiar per trastullamento e per i propri interessi, non v’è “mandato sociale” che tenga, che si imponga come unica ragione per la quale varrebbe la pena di spender parole.

Ricordate il Maiakovski di “Come far versi”? “Perché mai debbo scrivere sull’amore di Mania e di Petia, e non considerarmi invece una parte di quell’apparato statale che costruisce la vita? (…) È inutile mettere in funzione una grande officina poetica per fabbricare acciarini. Bisogna ripudiare futilità poetiche tanto irrazionali. La penna deve essere impugnata solo quando non vi sia altro mezzo d’espressione che il verso. Le cose già pronte devono essere rielaborate solo quando si percepisca con chiarezza il mandato sociale. Per intendere rettamente il mandato sociale, il poeta deve essere al centro delle cose e delle vicende. Conoscere la teoria economica, conoscere la vita reale, penetrare la storia scientifica è per il poeta -nella parte sostanziale del suo lavoro- più importante di ogni manualetto scolastico d’un qualsiasi professore idealista che prega per il vecchiume. Per eseguire nel modo migliore il mandato sociale il poeta deve porsi all’avanguardia della sua classe, deve battersi, insieme con la classe, su tutti i fronti. Bisogna mandare in frantumi la fiaba dell’arte apolitica.”

Insomma, quando leggiamo un poeta ispirato, di quelli cioè che hanno sentito l’irrinunciabile ansia non di mettersi al servizio dell’umanità con un proprio mandato sociale, ma di comunicare quanto segue…

“Ruberò anche una rosa
che poi, dolce mia sposa,
ti muterò in veleno
lasciandoti a pianterreno
mite per dirmi: «Ciao,
scrivimi qualche volta»,
mentre chiusa la porta
e allentatosi il freno
un brivido il vetro ha scosso.”
(Giorgio Caproni da “Stanze della funicolare” Roma, De Luca 1952)

bè’… noi diciamo che si può anch’essere poeti e non scrivere se non si ha nulla di urgente da comunicare agli altri, che si può anch’esser non poeti e dire… dire che occorre superare la propria egoità per rendersi conto, al di là del bene e del male, della propria intollerabile condizione di uomini sottomessi e azzerati dal proprio qualunquismo.

Noi diciamo che l’affermazione dei diritti dell’uomo debba avvenire nel relazionarsi con tutto quanto nel mondo soffre. Occorre esser convinti che è più importante contribuire a scongiurare l’imminente pericolo d’una guerra, piuttosto che starsene tranquillamente seduti al proprio scrittoio a scrivere lamenti, piagnistei, burattinate di frizzi e lazzi, giocondi ritagli intrugliati e fatti passare magari per avanguardismo…

Guardare criticamente dentro al tessuto sociale
Finalizzare la letteratura e l’arte a un guardare criticamente dentro al tessuto sociale, vuol dire interrogarsi sulle proprie decisioni linguistiche ed etiche secondo l’ottica dell’estensione di campo, individuabile quest’ultima nel vivo desiderio di relazionarsi alle manifestazioni sociali per analizzarle e, se necessario, contraddirle.
È in questo senso che non siamo per una letteratura paralizzata nel dialogo con se stessa, né per una sperimentalità tutta volta a un ludismo verbale decorativo, né per l’esaltazione di un avanguardismo scaduto nell’antologizzazione di se stesso.

Sperimentare vuol dire coraggio di mettersi sempre in discussione con l’andare in traccia di una forma espressiva mai rinviabile alla convenzionalizzazione di una forma fine a se stessa, mai fissabile nell’inalterabilità di un proprio sistema segnico ed espressivo.

Ogni orizzonte culturale (così quello espressivo) ha perso definitivamente quel valore assoluto interno che lo sterilizzava nell’emblematizzazione di una dimensione riconducibile solo a se stessa. Perché il pensiero, astratto o concreto che sia, non degeneri a dogma, non può che aborrire quella ideologia individualistica dell’arte per l’arte che lo vorrebbe vincolata all’ortodossia dell’autoreferenzialità, per la quale l’atteggiamento del pensiero, di fronte anche a se stesso, non è certamente quello di aprirsi al dialogo con la collettività di altri pensieri.

Siamo stifi di…
Pertanto… siamo stufi di affermare che il nihil di maniera, debordante dalla troppità di culture ridotte a una plutocrazia lucrabile, oggi più che mai, predisposto a scandire la lutulenza consumistica della superficie, funge da despota.
Siamo stufi di dire che la cultura soccombe al pettegolezzo, ai pleniluni idillici di patetiche fantasie da talk show, alla levità rituale delle maldicenze da salotto, alla chincaglieria autopubblicitaria da tela-novela.
Siamo stufi di dire che la cultura è merce di transito, vendereccia, smerciata al minuto, cianfrusaglia da usa e getta.
Siamo stufi di dire che la cultura costituisce uno dei tanti mercimoni prodotti dai detentori delle ricchezze, per i quali non v’è che il braccheggiamento del profitto individuale, mirante a rafforzare la propria mentalità (esclusionista e di potere) di classe detentrice dei capitali, dei costumi, del pensiero.
Siamo stufi di dire che la cultura è materiale acquietato nell’azzeramento d’ogni forma di contraddizione verso la realtà costituita.
Siamo stufi di dire che la cultura oggi è più d’ogni altra cosa ciò che contribuisce al rafforzamento di un pensiero che si piega alla sudditanza economica e politica del capitalismo: si producono linguaggi non tanto per determinare un’esortazione a vedere il mondo con discernimento critico, quanto per produrre cultura precotta e anestetizzata da un managerialismo pervasivo.
Siamo stufi di chiederci ancora una volta se sia o no giusto porre resistenze sovversive e devianti con nuove strategie utopiche e urti di dissidenza contro una società che vorrebbe inghiottirci tutti nell’imperialismo del suo dispotico sfruttamento economico, condannandoci (individuo-società-sapere) alla speculazione monetaria.
Siamo stufi di chiederci se oggi, in cui “niente vi è contraddittorio, niente vi è escluso (…) tutto coesiste meravigliosamente in un’indifferenza totale”, oggi in cui “è l’arte in gran parte: una protesi plubblicitaria, e la cultura una protesi generalizzata” (Baudrillard), sarebbe necessario praticare da parte di ogni linguaggio espressivo la rimozione delle proprie specificità disciplinari in senso antagonistico rispetto a se stesse e alla “tecnoscienza capitalistica” (Lyotard) del pensiero debole, nonché rispetto alla aleatorietà e alla generalizzazione neutra onnicomprensiva della cultura dominante.
Siamo stufi di chiederci se arte e cultura potrebbero mai, in rapporto dialettico desublimato dall’esperienza di una lotta sociale, antimitologizzare la postmodernità affaristica di un’accumulazione selvaggia di linguaggi inghiottiti dall’ipocrisia di una politica-fiction.
Siamo stufi di chiederci in che modo difendersi dalla propaganda dell’indifferenziato: labile contenuto senza contenuto di un insieme di segni stereotipati; rimescolamento di non-sensi che si parlano artificialmente da formalistici messaggi pre-confezionati.
Siamo stufi di chiederci in che modo portare la comunicazione espressiva fuori della neutralità soggettivistica dell’Io; in che modo uscire dal convenzionalismo passivo di una comunicazione di massa.
Siamo stufi di dire e ridire, di affermare e riaffermare avversioni e malumori già palesati abbondantemente da chiunque abbia sentito la stessa esigenza di dichiarare apertamente il dissapore verso una società che ci sopprime e ci soffoca coi suoi soprusi da totalitarismo di mercificazione dei saperi massificati, di mercato culturale capitalizzato.
Basta! occore passare ai fatti.

Per una editoria intersemiotica

Occorre che una sana editoria rifletta concretamente, in prima istanza, sulla possibilità di promuovere (a spada tratta) valori culturali non sterilizzati nell’emblematizzazione di una dimensione di pensiero riconducibile solo a se stessa.
Occorre unire in un’unica lotta, per la difesa di un’espressività che si cali vivamente nel reale con un forte senso critico e autocritico, differenti linguaggi espressivi.
Siamo convinti che la letteratura, per poter essere “Antagonistica” e “Altra”, debba teoricamente e creativamente confrontarsi e dialogare con altre realtà artistiche, disincagliarsi dalle lottizzazioni del proprio essere per farsi pregnanza segnica di un messaggio politico del vissuto che comunichi l’essenzialità della multiformità di una attualità che ci rispecchia.
I linguaggi espressivi non vanno visti e concepiti ognuno per sé, ristretti a un proprio limitato campo d’azione.

L’evento intersemiotico dovrà porsi in qualità di ricerca espressiva rivolta all’attualità; esso dovrà rivelare ai fruitori, a cui si rivolge, che esiste in concreto un modo di fare e proporre cultura aprendosi alla conoscenza dei fatti che ci circondano con coscienza e autoconsapevolezza.
Ingaggiare una vera e propria lotta sociale col progettare, stampare e divulgare testi teorici, di letteratura e d’arte impegnati sul piano di una concreta valorizzazione di una espressività dalle forti connotazioni d’impegno civile.

Una editoria che si rispetti dev’essere un organo di lotta tramite cui salvaguardare, in ogni individuo, il diritto a conoscere il fondamento positivo di una ricerca nei campi espressivi e culturali che oltrepassi i limiti invalicabili del potere, per un desiderio utopico di migliorare la società sul piano della consapevolezza critica e del confronto dialettico con gli altri e noi stessi.

Gaetano delli Santi