“La critica testuale – afferma Eco – è sempre semiotica anche quando non sa o nega di esserlo… se è così, ritengo si debbano affermare due cose: una, che una semiotica delle arti altro non sia che una ricerca e messa a nudo delle macchinazioni dello stile; due, che la semiotica rappresenti la forma superiore della stilistica, e il modello di ogni critica d’arte”(cfr. U. Eco, “Sullo stile” in Sulla letteratura, Bompiani, Milano 2002, pp. 175-179).
“Se è così, ritengo si debbano affermare due cose: una, che una semiotica delle arti altro non sia che una ricerca e messa a nudo delle macchinazioni dello stile; due, che la semiotica rappresenti la forma superiore della stilistica, e il modello di ogni critica d’arte” (Eco 2002, p. 175)
“La critica del testo… è condurre passo passo a scoprire come il testo sia fatto e perché funzioni come funziona… I modi in cui si può mostrare come un testo sia fatto (e perché sia bene che sia fatto così, e perché non poteva che essere così, e perché vada considerato eccelso proprio perché è fatto così) possono essere innumerevoli. Comunque essi si articolino, questa critica non può essere che un’analisi semiotica del testo” (Eco 2002, p. 178).
“Dunque se fare vera critica è capire e far capire come un testo è fatto… la sola forma di critica è una lettura semiotica del testo” (Eco 2002, p. 178).
“La critica testuale … è sempre semiotica anche quando non sa, o nega di esserlo” (Eco 2002, p. 179).
U. Eco, “Sullo stile” in Sulla letteratura, Bompiani, Milano 2002
Il termine stile, da come si propone ai primordi del mondo latino, sino alla stilistica e alla estetica contemporanea, ha una storia non del tutto omogenea. Se pure è individuabile un nucleo originario, per cui dallo stilus – lo strumento da cui trae per metonimia origine – lo stile diventa sinonimo di scrittura e quindi di modo di esprimersi letterariamente, è pur vero che questo modo di scrivere verrà inteso nel corso dei secoli in maniere e con intensità diverse.
Per esempio, esso passa ben presto a designare generi letterari ampiamente codificati (stile sublime medio tenue stile attico, asiatico, o rodio; stile tragico, elegiaco o comico). In questo, come in tanti altri casi, lo stile e un modo di fare secondo regole, di solito assai prescrittive, e vi si accompagnava l’idea di precetto, di imitazione, di aderenza ai modelli. Di solito si pensa che è col manierismo e con il barocco che all’idea di stile si associa quella di originalità e ingegno – e non solo nelle arti, ma anche nella vita, poiché con l’idea rinascimentale di “sprezzata disinvoltura” l’uomo di stile sarà colui che ha l’arguzia, il coraggio (e il potere sociale) di comportarsi violando la regola – ovvero mostrando che egli ha privilegio di poterla violare.
E tuttavia persino il detto di Buffon per cui “lo stile è l’uomo” non va ancora inteso in senso individualistico, bensì specifico: lo stile è virtù umana.
L’idea di uno stile che s afferma contro i precetti appare piuttosto nella Ricerca intorno alla natura dello stile di Cesare Beccaria, e poi con le teorie organicistiche dell’arte, per cui con Goethe si avrà stile quando l’opera raggiunge una sua originale, conchiusa, irripetibile armonia. Per arrivare infine alle concezioni romantiche del genio (per cui lo stesso Leopardi dirà che lo stile è quella specie di maniera o facoltà che si chiama originalità). A tal punto che il concetto ruota per così dire di 360 gradi alla fine del XIX secolo, col decadentismo e col dandismo, quando ormai lo stile si identifica con l’originalità bizzarra, il disprezzo dei modelli; ed è da qui che nasceranno tutte le estetiche delle avanguardie storiche.
Identificherei due autori per cui lo stile è concetto squisitamente semiotico, e sono Flaubert e Proust: per Flaubert lo stile è un modo di pensare, di vedere il mondo. Per Proust lo stile diventa una sorte di intelligenza trasformata, incorporatasi nella materia, tanto che per Proust Flaubert, attraverso l’uso nuovo che fa del passato remoto, del passato prossimo, del participio presente e dell’imperfetto, rinnova la nostra visione delle cose quasi quanto Kant.
Da queste fonti discende l’idea dello stile come modo di formare che sta al centro dell’estetica di Pareyson. Ed è chiaro che a questo punto, se l’opera d’arte è forma, il modo di formare non riguarda più soltanto il lessico o la sintassi (come può accadere nella cosiddetta stilistica) ma ogni strategia semiosica che si dipana sia in superficie che in profondità lungo le nervature di un testo. Apparterranno alla stile (come modo di formare) non solo l’uso della lingua (o dei colori, o dei suoni, a seconda dei sistemi o universi semiotici) ma anche il modo di disporre strutture narrative, di disegnare personaggi, di articolare punti di vista. (…)
Parlare dello stile significa a questo punto parlare di come l’opera è fatta, mostrare come si è andata facendo (sia pure attraverso la progressione puramente ideale di un percorso generativo), mostrare perché si offre a un certo tipo di ricezione, e come e perché la suscita. E, per chi sia ancora interessato a pronunciare giudizi di valore estetico, solo individuando, pedinando e mettendo a nudo le supreme macchinazioni dello stile si potrà dire perché quell’opera è bella, perché ha goduto di diverse ricezioni nel corso dei secoli, perché pur seguendo modelli e talora precetti disseminati nel mare dell’intertestualità, ha saputo raccogliere e far fruttare quelle eredità in modo di dar vita a qualcosa di originale. E perché, se pure ciascuna delle diverse opere di un artista aspira all’originalità irripetibile, è possibile ritrovare lo stile personale di quell’artista in ciascuna di queste opere.
Se così è, ritengo si debbano affermare due cose: una che una semiotica delle arti altro non si che una ricerca e messa a nudo delle macchinazioni dello stile; due, che la semiotica rappresenti la forma superiore della stilistica, e il modello di ogni critica d’arte.
Questo detto, non avrei bisogno di aggiungere altro: tutti si ricordano quanta luce abbiano gettato sui testi (che pure già prima amavamo in modo oscuro) alcune pagine dei formalisti russi, di Jakobson, dei narratologici o degli analisti del discorso poetico. Ma veramente viviamo in tempi oscuri… dobbiamo dunque chiederci che cosa si intenda per critica (d’arte o di lettura) e per comodità mi limiterò a parlare di critica letteraria.
Ora credo che occorra anzitutto distinguere tra discorso sulle opere letterarie e critica letteraria. Sulle opere letterarie si possono fare svariati discorsi, e un’opera può essere assunta come campo d’indagine sociologica, come documento per una storia delle idee, come reperto psicologico o psichiatrico, come pretesto per una serie di considerazioni morale. Ci sono delle civiltà, prima tra tutte quella anglosassone, dove – almeno sino all’avvento del New Criticism – il discorso sulle opere letterarie era anzitutto discorso morale. Ora tutti questi modi discorsivi sono in sé legittimi, se non fosse che, nel momento stesso in cui si pongono, presumono, implicano, suggeriscono, rimandano a un giudizio critico-estetico che qualcun altro, o lo stesso autore in altre sede, dovrebbe aver già pronunciato.
Questo discorso è quello della critica in senso proprio, ed esso può articolarsi in tre modi – dove deve essere chiaro che questi tre modi sono “generi critici”, tipi ideali, e si dà sovente il caso che, sotto l’insegna di un genere o modo, qualcuno di fatto provveda esempi illustri di un altro modo, o mescoli, nel bene e nel male, i tre modi insieme.
Chiameremo il primo modo la recensione (…).
Il secondo modo della critica (è) … la storia letteraria (…)
Veniamo ora al terzo modo, la critica del testo: in essa il critico deve assumere che il lettore non sappia nulla dell’opera, anche se si tratta della Divina Commedia. Deve fargliela scoprire per la prima volta. Se il testo non è breve, così da poterlo riportare per intero, suddiviso in paragrafi o versicoli, occorre presumere che il lettore ne disponga altrimenti, perché il fine di questo discorso è condurre passo per passo a scoprire come il testo sia fatto, e perché funzioni come funziona (…).
I modi in cui si può mostrare come un testo sia fatto (e perché sia bene che sia fatto così, e perché non poteva che essere così, e perché vada considerato eccelso proprio perché è fatto così) possono essere innumerevoli. Comunque essi si articolino, questa critica non può essere che una analisi semiotica del testo.
Dunque, se fare critica è capire e far capire come un testo è fatto, e se la recensione e la storia letteraria, in quanto tali, non possono farlo in misura completa, la sola vera forma di critica è una lettura semiotica del testo.
Una lettura semiotica del testo ha della vera critica (che deve portare a capire il testo in tutti i suoi aspetti e le sue possibilità) la qualità che di solito e fatalmente manca alla critica recensoria e alla critica storica: essa non prescrive i modi del piacere del testo, bensì ci mostra perché il testo possa produrre piacere. (…)
La critica testuale (…) è sempre semiotica anche quando non sa, o nega di esserlo (…).
(…) I nemici della semiotica testuale… perdono il senso del terzo tipo di critica di cui parlavo (scilicet: la critica testuale) (…) l’unico che ci possa aiutare a capire il modo di formare che un testo manifesta (…).
(…) La mia generazione post-crociana (la prima) ha esultato sulle rivelazioni di Wellwk e Warren, sulla lettura di Dalmaso Alonso o di Spitzer. Cominciavamo a capire che la lettura non era una scampagnata in cui si coglievano quasi a caso, or qui or là, i ranuncoli o i biancospini della poesia, annidata tra il letame delle zeppe strutturali, ma si affrontava il testo come cosa intera, animato di vita a diversi livelli. (…)
Pareva che anche la nostra cultura lo avesse imparato. Perché se ne sta dimenticando. (…) Personalmente vedo in questa tendenza un riflesso d altri settori della comunicazione, l’adeguarsi della critica ai ritmi e alla tata d’investimento di… il messaggio che viene quotidianamente lanciata dagli psicopompi della Nuova Critica Post-Antica: ci ripetono che chi conosce la fotosintesi colrofiliana sarà per tutta la vita insensibile alla bellezza di una foglia, che chi sa qualcosa della circolazione del sangue, non saprà più far palpitare d’amore il suo cuore. E questo è falso, e bisognerà dirlo e ridirlo.
Qui si sta combattendo una battaglia campale tra chi ama un testo e chi vuole fare in fretta. (…)
Quindi si tratta di mantenerci fermi alle origini, e del concetto di stile, e del concetto di critica vera, e del concetto di analisi delle strategie testuali. Quello che la migliore semiotica dello stile ha fatto e sta facendo è quello che hanno fatto i nostri maggiori. L’unico impegno sta nell’umiliare, con un serio e continuo lavoro, senza cedere a nessun ricatto, i nostri minori.