recensione del volume italiano per straniati
di Mario Lunetta
Il rapporto di Tiziana Colusso con il linguaggio è, per sua fortuna, tutt’altro che pacifico. La scrittrice romana sa che quello che chiamiamo appunto linguaggio letterario non è esplicativo ma interrogativo, non è descrittivo ma autoreferenziale, nel senso che non chiarisce e non giustifica nulla se non la propria presenza, la quale poi, quanto più è forte e complessa tanto più contiene nel suo phaìnomai elementi, strati, relitti, scorie di molteplice. Quando è consapevole, l’inevitabile narcisismo della scrittura letteraria è un punto di forza, non un orpello risibilmente vanitoso. In questo senso la poesia degna del nome rivolge sempre (anche) contro di sé le pulsioni narcissiche dell’autore, e le fissa in linguaggio “autonomo”.
E’ precisamente quanto avviene in una raccolta come Italiano per straniati, che fin dal titolo opera un depistaggio ironico-critico nei confronti delle pigre attese del destinatario (straniati anziché stranieri, come nell’automatismo della vulgata) e ribadisce le sue intenzioni in esergo, Brecht favente. Nel progetto di Colusso, quindi, le assi cartesiane del libro fissano una grammatica dello straniamento, una volta accertato che, se il mondo è quello che è, lo stesso mondo è quello che appare: ovverosia, un groviglio di enigmi da leggere con un’ottica non frontale e uno strumentario sguincio: prima di tutto, quindi, deautomatizzando il linguaggio. Che è, come sa bene ogni poeta, una bestia difficilmente addomesticabile: e allora, appunto, non va addomesticato ma semplicemente messo in crisi di identità. E’ quel che càpita nella poesia epònima di apertura, che scatta in un incipit invidiabile: “Ho la lingua bruciata dalle vanità”: e che, sotto colore di produrre con leggerezza un elenco di noie, di incombenze fastidiose, di beghe quotidiane, si risolve in una dichiarazione di poetica obliqua, e di sconfinato amore per la lingua – proprio perché, quanto più Colusso avverte con sofferenza e disgusto la riduzione di essa a merce gregaria per “straniati” ignari di qualsiasi ostranenja in quanto sic et simpliciter alienati, tanto più la sua passione si ribella irriducibilmente alla cadaverizzazione del logos, e ne rivendica il diritto a un’esistenza altra: qualcosa che, in parole povere, equivale ad una dichiarazione robusta di riappropriazione e di libertà d’uso e di fantasia: “Lingua patria & matrigna /lingua gramigna/ lingua da banditori e grulli /specchietto per allocchi che riempie di reality soap in vuoto di realtà, /language de dépistage / (obbligatorio per essere à la page)”. Oppure ancora “Lingua di cicale. Lingua morta. Lingua spezzata. Nemmeno una parola per essere salvata. /Glossite da glossolalia. E così sia”. Questo perché in effetti l’italiano più diffuso e pervasivo, quello sconciato della tv, è ormai una sottolingua stupidamente spudorata, tutta emotiva e modaiola, piccologergale e paramafiosa: non più dialetto selvaggio o impasto pieno di furor di rivincita sociale, ma solo microkoiné per sguatteri e buffoni. E qui, mi pare, poggia anche la valenza politica del testo che apre il libro di Tiziana: e, non foss’altro, lo certifica con estrema urgenza una poesia come “Epidemos (language is a virus)”, in cui vale il reciproco, “virus come linguaggio/ lingua tumorale di segni sintomatici che proliferano a cloni, a grappolo, a rete:/ partenogenesi virale ipersegnica, ipertrofica. /Guerre non dichiarate simulano un videogioco che simula il campo di battaglia: /una cancrena divora invisibile gli organi vitali del pianeta, / senza più Storia, senza più storie da raccontare, / tranne forse un unico ipertesto disperato…”.
La peste si aggira dovunque, aggredisce le cose, i corpi e i segnacoli. Eppure il linguaggio funziona come anticorpo potentissimo, e ad esso Tiziana si affida perdutamente, nel cuore di una metafora in cui resiste l’ombelico della sua città, dell’”isola lazzaretto”, della “morgue tiberina”, quando si apre in una liberatoria dichiarazione d’amore: “Roma mia, amata di sguincio, soprappensiero, Roma mia appestata, /Roma che s’offre spudorata ad ogni sguardo dal Pincio”.
E’ il primo movimento di un percorso che procede per aggregazioni di senso e variazioni di lingua, in un libro lucidamente disegnato, strutturalmente solido. Colusso è un poeta di specie autoriflessiva, quindi metalinguistica (come avviene nella modernità più interessante), e naturalmente sottopone a un bel gioco di rèdini (briglia corta, briglia lunga) gli impulsi del pathos. Ciò che per lei soprattutto conta è l’assetto sintattico e, par conséquent, il tono, la gradualità degli effetti. Il canto non è nelle sue corde né nei suoi presupposti teorici: “sempre negata all’elegia distesa / a far la rima in quiete”. In un testo analitico-programmatico come “Inciviltà dell’immagine”, che non è il solo momento prosastico a interferire nel corpo della versificazione, come ad abolire gli steccati dei generi (vedi Campana, o Valéry, o Zanzotto), si parla di parola ormai “degradata al rango di didascalia”: per aggiungere poi, molto consapevolmente: “Certo, lo so, la mia è una posizione impopolare, perché il pubblico ha il diritto di vedere, come a poker: vedere, non capire, che è tutta un’altra cosa, una chimica sottile, invisibile/indicibile”.
Una chimica sottile, appunto: su questa ipotesi, potremmo dire, si snoda l’avventura poetica di Tiziana, che è – malgrado, e anzi proprio perché così intrisa di coscienza dei propri strumenti di invenzione e di esame – intrisa a fondo di molti rifiuti e di molte indignazioni: la volgarità mercenaria, la sopraffazione, la guerra permanente che massacra non solo i corpi degli uomini, ma anche la comunicazione, i rapporti interpersonali, le menti, in una giostra di menzogna e di buia arroganza. Indignatio e ironia, magari talvolta spinta fino al sarcasmo crudo, o al paradosso tra il serio e il faceto (“Buddha femmina rap”): è in questo ring che l’estro intelligente di Colusso si muove, danza, ferisce. L’esperienza del vissuto si mescola alle strategie dell’inconscio, filtrate alla griglia di una cultura sofisticata, in cui le lingue fanno massa con la Lingua, feticcio indistruttibile di tutti i poeti che pensano eroicamente. E mi corre alla mente, a questo punto, una frase che Dario Bellezza disse a Renzo Paris in una manifestazione di poesia (cfr di quest’ultimo Ragazzi a vita, Marcos y Marcos, 1977), a proposito di Amelia Rosselli: “E’ la solita Amelia, pazza quando vuole, con l’italiano zoppicante degli stranieri”. Amelia Rosselli, che dominava perfettamente l’inglese e il francese, aveva più di un problema con l’italiano: donde certe sue suggestive oscurità, certi suoi misteriosi raptus metaforici. Tiziana Colusso domina anche lei l’inglese e il francese, e domina anche l’italiano: anche per questo, credo, il suo delirio non è sacrale, non è eleusino, ma estremamente concreto. La poesia non si fa in trance, anche quando si fa in sogno.
Il sogno di Tiziana è lucido, quindi la sua dizione non è evocativa, neppure nelle poesie d’amore più esplicite (“Terra di latte e di miele”, “Se ti tocco”), oppure – miracolo! – nei momenti di contemplazione più ammaliata di certi luoghi o testimonianze d’Oriente (“Le braccia del Bodhisatva”). Già, perché l’Oriente è uno dei referenti più segreti dell’intero libro, e si esplicita sia nei movimenti di una forma mentis (spesso strategicamente passivizzati a accumulare energie) che in quelli di una forma calami, come si vede ad esempio in “Atlante della luce” o in “Mi esercito al silenzio”. Colusso, che ha aperto il suo intenso Italiano per straniati con una serie di gesti fortemente dinamici, lo chiude disponendosi in quello raccolto e impassibile dell’ascolto dharmico: “rinnego il poema del mondo / Inspiro, espiro” – forse pensando a Cocteau, alla sua battuta impertinente contro l’ispirazione in poesia.
Accademia Platonica, agosto 2004
Mario Lunetta