un estremista del vocabolario (saggio nel risvolto di copertina)

da Fra’ Giordano Bruno redivivo (D’Ambrosio editore, milano 2001)
di Francesco Muzzioli

1. Una volta, neanche tanto tempo fa — all’altezza delle nuove avanguardie degli anni Cinquanta-Sessanta, — il testo sperimentale veniva incontro al destinatario come un’opera aperta: gli veniva incontro anche nel senso che si prestava ad un “incontro”, perché gli offriva il destro di giocare con le sue parti (a spostare, a ricomporre: a ri-creare, insomma), in modo da disporle ogni volta diversamente, secondo la propensione del momento. Oggi — nel testo di delli Santi, in consonanza con uno sperimentalismo del tutto nuovo, — quella che viene incontro al lettore sembra essere piuttosto un’opera chiusa. In qualche modo catafratta in una corazza di parole. E non gli viene più tanto “incontro”, dunque, quanto piuttosto inopinatamente “contro”. Il sogno (l’illusione) della libera partecipazione è tramontato, con quel tanto di “ricreativo” che possedeva. Il destinatario si accorge di non essere più un “fruitore”, che può giovarsi a piacimento dell’opera e combinarsela come gli pare; non può più essere un semplice “consumatore” di linguaggio. Accade qualcosa che, nella logica del mondo delle merci, sarebbe assurda. Il prodotto rende difficile il consumo. Chi si accosta all’opera deve, da subito, accettare una sfida. E l’oggetto di questa sfida è precisamente la “comprensione” — che invece l’ermeneutica tradizionale presuppone come il “dato” di partenza e dunque come il fatto più scontato che ci sia.
Per effetto della sfida che il testo è, ci si ritrova gettati agli estremi. Da un lato, per quanto sia ricca la competenza linguistica, i significati delle parole ci sfuggono. Diciamo che ci sono lontani, in quanto le unità lessicali sono provenienti da aree della lingua distanti nel tempo (arcaismi) o nello spazio (gerghi). Il che si riduce — in parole poverissime, che sono poi quelle della reazione abituale dei lettori — al fatto che il testo non si capisce. Potremmo aggiungere, per essere precisi, che “non si capisce immediatamente”, perché basterebbe dotarsi di un poco di tempo e avere a portata di mano un buon vocabolario (meglio sarebbe più d’uno, ma non si può avere tutto dalla vita…) e il piano dei significati verrebbe in gran parte recuperato. Ci si renderebbe conto, per lo meno, che qui nulla è inventato. La lingua del testo è, nel modo più assoluto, l’italiano. Le difficoltà della lettura non dipendono, dunque, dalle scelte linguistiche dell’autore: sono tutte a carico delle sue scelte stilistiche.
Dicevo: basterebbe un poco di tempo… Ma il tempo non c’è, lo sappiamo bene (perché il “tempo è denaro”, a conti fatti). Non solo per il lettore-consumatore, abituato a fruizioni rapide, ma anche per il classico interprete dell’ermeneutica, il quale — si sa — pensa che tocchi alla tradizione portare il testo verso di lui; magari l’interprete darà l’ultima spintarella al movimento della storia e della cultura, ma l’opera (in quanto classico, portatore di valori umani eterni) sarà “autoevidente” al suo ricettore. Insomma, o parla subito o niente.
Ma d’altro lato, è proprio quello che il testo di delli Santi fa, se lo guardiamo dall’estremo opposto. Nel senso che lo capiamo benissimo, infatti: e immediatamente, per l’appunto. Basta che ci dimentichiamo per un momento del livello del significato. Potremmo dire: della mediazione del significato. Cosa dobbiamo fare, invece? Proviamo a recepirlo come gesto. Lasciamoci interessare dalla sua intonazione, dalla sua attività, dalla sua dinamica in movimento. E tutto è chiaro, fin dal principio. Il gesto testuale ci invade, ci preme e, per l’appunto, ci sfida. E, in questo, è chiarissimo: non possono esserci dubbi sulle sue intenzioni aggressive e polemiche. Possiamo difenderci da questa colluttazione linguistica e non accettarla affatto (e qui il giudizio del “non si capisce niente!” è proprio di coloro che hanno capito benissimo… e per giunta da subito), oppure trovarci a condividerla (almeno parzialmente; e anche contro noi stessi) nei suoi obiettivi e bersagli. Perché il pubblico, come in ogni avanguardia che si rispetti, ha da risultare diviso. Questo è “normale”. La chiusura è dunque una chiusura relativa, una chiusura selettiva. Una volta che la accettiamo come gesto fondante il nostro rapporto con il testo, e quindi come gesto che, d’un colpo, ci divide (divide il pubblico e divide noi stessi dalle nostre abitudini di lettura comoda), ciò che era lontano diventa d’un colpo vicino e il testo trasmette, innanzitutto, una sorta di carica corporea che “tocca” in profondità. E qui parlo di un livello più profondo del “senso” culturale e ideale a cui pensa l’ermeneutica. Una profondità materiale e non spirituale.
Se passiamo attraverso tale gestualità polemica, la stessa opacità dei significati prende una tutt’altra piega. Essa si presenta, infatti, come un atto d’accusa, precisamente rivolto all’impoverimento linguistico dello stato presente. Il testo è scritto rigorosamente in italiano, come segnalavo: quindi, se non lo capiamo, vuol dire che siamo diventati stranieri alla nostra stessa lingua. Il repertorio della lingua (il vocabolario, a dirlo alla svelta) è diventato un cimitero, un contenitore di parole morte, che non siamo più in grado di decodificare. E tanto più è messo sotto accusa il sistema sociale che ha favorito questo sterminio (il genocidio della lingua), quanto più il testo dimostra la vitalità provocante delle tante e troppe parole “sprecate”, la loro tuttora intensa validità espressiva. Perché le parole rimosse sono quelle più vicine alla materia, alla motilità corporea e pulsionale oggi sdegnata nel “puro spirito” del capitale imperante. “Espressionismo”, forse, ma di un nuovo tipo, che non fa più risaltare soltanto la parole di un individuo in stato psicologico “deviante” (certo, l’individuo ha parte in tutto questo: ha le sue difficoltà nella “omologazione” che lo domina e una buona quantità di spinta somatica pronta a esplodere verbalmente), ma anche lo stato della langue, la sua patologica riduzione e “funzionalizzazione”, la sua ortopedia costrittiva e mutilante.
Di fronte alla falsa scioltezza della comunicazione in corso, l’unica risorsa è di inceppare il dialogo, mostrare quello che in esso non funziona: le asimmetrie, le discrepanze, gli scarti. Se la lingua è malata, non resta che esacerbarla. “Vomitare” parole. Il conflitto, così, sommerge il dialogo. Del resto la buona disposizione verso l’altro è sempre sospetta di paternalismo, di dissimulazione del gradino gerarchico, di alienazione strisciante. Solo la durezza linguistica ci può portare al risveglio.
Con ciò il destinatario è messo in attività. Una attività interpretativa, certo; che è per giunta, doppia. Perché, quando riuscisse ad appianare con successo i significati grammaticali, si troverebbe davanti al costrutto retorico dell’immagine verbale. Ma, proprio il fatto che l’interpretazione sia comunque infinibile, sventata in partenza qualsiasi tentazione di appropriazione totale, sposta il problema dal consumo alla produzione. La stessa apparente chiusura (quello di delli Santi è un testo che si presenta come se non avesse bisogno di lettori) ci chiama a rispondere alla sfida e a dimostrare il contrario. Cioè a leggerlo: a produrre, ciascuno di noi, i propri modelli di attraversamento, le proprie ipotesi, i propri ritagli, accompagnati dalla consapevolezza della loro parzialità.

2. La risposta “naturale” all’omologazione è il plurilinguismo. La prospettiva di Bruno è qui utilmente messa a frutto, trasferendo nel linguaggio poetico-letterario la ricerca degli “infiniti universi”. Si tratterà allora di esplorare infiniti universi linguistici. La lingua è un serbatoio di espressioni possibili perché è eterogenea essa stessa, è un insieme di lingue (registri, usi, ecc.) e di sconfinamenti e intersezioni tra lingue. Ora, la letteratura ha spesso sottolineato la cosa praticando la variante minima del bi-linguismo: abbiamo allora fenomeni come l’incrocio lingua-dialetto, oppure lingua materna-lingua straniera. Non c’è neppure bisogno di essere esuli o immigrati: ogni parlante comincia parlando la lingua degli altri. Perciò ogni vero scrittore si avvia ad essere tale quando si accorge di usare una lingua impropria, un codice che lo opprime e contro cui deve lottare. E scrive, allora, a partire dalla sensazione di non esprimersi bene nella propria lingua…
Nel caso di delli Santi c’è qualcosa d’altro: come abbiamo visto egli scrive a partire dalla percezione che nessuno capisce più la propria lingua. Ciò significa accorgersi di un capovolgimento radicale: il normale (colui che possiede la lingua, nelle sue varie articolazioni) si è rovesciato nell’anomalo. Di qui la messa in campo di un plurilinguismo che non è più “duale”, cioè teso soltanto a intaccare il primato gerarchico del codice ufficiale con un codice subalterno. Non c’è più ragione di affrontare l’autorità della tradizione con la lingua quotidiana (tale, ad esempio, è molto spesso l’intervento del dialetto in rapporto al lessico aulico e letterario), in quanto la prima è già stata sconfitta ed uccisa. Nasce l’esigenza di un diverso schema che rivendichi la produttività linguistica. Ecco allora un plurilinguismo della massima pluralità degli apporti. Un plurilinguismo espansivo e, in linea teorica, sempre espandibile, lungo le direzioni del tempo (i termini del passato) e dello spazio (tutte le zone possibili di “contaminazione” e invenzione). Anche se l’ambiente di questa espansione lo possiamo immaginare come equivalente al più voluminoso vocabolario, non si tratta però di una ripartizione per ordine di caselle, quanto piuttosto di un insieme gassoso, in stato scomposto e turbolento, con continue aggregazioni, spostamenti, accostamenti inusitati. «Un sermone stridente» — dice di sé il testo: e qui fa davvero ciò che dice — «bruttato di gerghi fecciosi, di idiomi impillaccherati, di locuzioni furbesche, di vernacoli bislacchi, di dialetti bastardi e corrotti». E via dicendo, nell’accumulo incontenibile dell’elencazione. Potenzialmente all’infinito.
Dove diventa meno importante la connotazione, cioè il registro di provenienza delle parole — anche perché la provenienza è diventata una sola per tutte: l’oblio, la perdita di competenza linguistica che rende ogni parola ugualmente dimenticata — rispetto alla quantità e disparità degli apporti. La “forza mimetica” del testo, ovverosia la portata del suo gesto, sta precisamente in relazione all’aumento quantitativo dell’inclusione lessicale e alla prodigiosa capacità di recupero dei residuati linguistici che vengono scaricati sulla pagina. E uso volutamente “residuati”, come si dice “residuati bellici” (perché c’è il rischio che possano esplodere…). Il rimosso della lingua proviene certamente da conflitti che hanno lasciato in piedi non i segni, ma la traccia della loro cancellazione (la cosa è evidente, ad esempio, in un certo sostrato popolare-antico, che non a caso è il livello preferito da delli Santi: sono parole che sappiamo benissimo che sono state censurate per motivi sociali, di classe). Riscoprire e rimettere in atto gli strati verbali perduti non è dunque per nulla — questo andrebbe precisato fin dall’inizio, a scanso equivoci — un atteggiamento nostalgico e pietoso che tende a restaurare i guasti di una dissennata barbarie e ad evocare i tempi in cui la lingua era ricca e importante il suo thesaurus (il che equivarrebbe a dire: gli intellettuali e gli artisti erano privilegiati e vicini al potere, con la loro brava “aureola” sacrale sulla testa). Non è nemmeno collezionismo antiquario. Nossignori. Le parole, qui, non vengono salvate. Vengono gettate, invece, di nuovo nel fuoco dello scontro, perché da esse si sprigioni, se mai si può sprigionare, ma in direzione inversa, l’antagonismo che ha accompagnato la loro stessa rimozione. Sono usate, senza alcun ritegno “religioso” (il termine non è poi così fuori luogo, se si tratta di reliquie…), come corpi contundenti, invece, adesso. Come armi improprie.
La stessa vicenda di Bruno, in fondo, cos’altro è se non la storia di una sconfitta, dell’annientamento di un corpo. Ma ogni sconfitta lascia un residuo storico, una certa dose di progettualità inespressa. In ciò tengo presente Benjamin, lo si sarà capito. La nozione benjaminiana che dal passato l’inadempiuto continua a chiederci ragione. E a richiedere nuove discontinuità. Così, nel serbatoio della lingua rimangono energie verbali che non hanno concluso il loro compito espressivo. Sono state cacciate nell’obsolescenza prima che potessero esaurirsi nel consumo. L’operazione che consente al ritorno del rimosso linguistico tende perciò a giovarsi delle forze compresse nelle parole. Potremmo parlare, forse, di valenze pragmatiche lessicalizzate.

3. E il plurilinguismo è espansivo a tal punto che si espande al di là della stessa elaborazione linguistica. Nel farsi libro, il testo di delli Santi si è incontrato con la grafica di Fausto Pagliano. L’operazione di edizione non è stata un’impresa soltanto per il coraggio di presentare al pubblico un’opera che perfino gli addetti ai lavori (ormai ridotti ad “addetti ai piaceri”) giudicheranno illeggibile. Non bastava questo. Si trattava anche di coinvolgere altre arti (del resto lo stesso delli Santi è anche artista figurativo) nel disegno di una poetica tendenziosa; per esprimersi, insomma, e per lottare con il maggior numero di strumenti possibili. Così il progetto grafico è chiamato a porsi nella stessa lunghezza d’onda della scrittura: è la prosecuzione con altre armi e su un altro campo della battaglia che il testo ha inteso intraprendere nel dominio della lingua. E allora la grafica si fa avvolgente, capillare, e prolifera anch’essa in grado estremo. L’horror vacui le detta l’occupazione di bande di spazio sempre nuove e diverse, mettendosi alla ricerca delle sue soluzioni ad ogni nuova apertura di pagina. Ogni pagina è un’opera. Che risponde, rilancia, configura diversamente le istanze della pulsione verbale. Come la scrittura, anche l’impaginazione ama direzioni divergenti e la temperie del décalage, l’alta escursione termica, i cortocircuiti dei suoi elementi: lo si potrà vedere negli scarti tra l’antico e l’ultramoderno, l’aggraziato e il duro, l’ornamentale e il significativo. (Davvero mi par di vedere, in questa invasione insieme della scrittura e del segno non verbale, una intersemiosi di grado assai elevato; e quasi una dimostrazione, alla faccia delle euforie informatiche, che il supporto “cartaceo” può essere — gettato alle ortiche ogni vittimismo e ogni rimpianto delle gloriose vestigia passate — un validissimo e maggiormente competitivo ipertesto multimediale). L’interpretazione del libro come oggetto artistico contribuisce a oggettivare anche il testo, a rendere ancora più materiali, straniati e carichi di tensione gli strati ritrovati della parola.

4. Torniamo per un momento alla strategia del consumo attuale, in regime appunto di consumismo Il consumo ci viene incontro con la massima varietà: ciascuno deve pensare di trovarvi quel che gli serve o quel che desidera sul momento. Ma dietro l’apparente varietà si scopre l’omogeneità. Poiché l’astuzia del consumo sta nell’anticipare la domanda. In modo che la domanda venga soddisfatta subito, senza fastidiose attese, essa viene preordinata nella forma più prevedibile possibile. Trovo subito da consumare (testi o altro che sia) solo se mi adatto a trovare ciò che è scontato che io cerchi. Il consumo economizza — e però spreca tutte le potenzialità che restano inevase. Il suo ideale sarebbe la produzione pura e semplice dalla domanda (“produzione del desiderio”, tout court), che però coinciderebbe con la completa alienazione dei consumatori. Ma, se ciò fosse possibile, non ci sarebbe più neanche la concorrenza che si basa precisamente sulla fluttuazione dei mercati. Per questo il consumismo è costretto a non realizzare mai il suo sogno (per nostra fortuna, il potere è contraddittorio).
Ebbene, rispetto alla tendenza del consumo, la strategia testuale di delli Santi si muove al contrario. Delli Santi non fa economia di parole — come propende a fare il sistema (secondo la legge del più grande accumulo di merci sotto i medesimi messaggi martellanti). Anzi, piuttosto le sperpera a piene mani. Si potrebbe dire che qui la parola è usata, non consumata. O, meglio, che l’uso viene costretto a evitare il consumo. Intendo riferirmi qui a quel fenomeno macroscopico che si apparenta all’apax, la parola detta una volta sola. Nel testo di delli Santi sembra che le parole siano tutte diventate apax. Non possono essere dette per più di una volta. Le parole sono diventate come le carte di un gioco: carte che l’autore ha in mano e che gioca sulla pagina senza poterle riprendere. Una volta “giocata”, una parola non è più ripetibile. Ripeterla vorrebbe dire sciuparla, banalizzarla, rendere scontato il suo significato. Per utilizzare, invece, a pieno, la sostanza energetica che la parola ha accumulato nella storia, bisogna che la sua messa-in-opera sia concentrata in un unico punto del testo.
Questa impossibilità del ri-uso è una sorta di autocensura, di criterio regolativo che l’autore si è imposto, per altro implicitamente e quindi senza vincoli prefissati. Ma la proibizione negativa si rovescia in meccanismo produttivo. Infatti, proprio perché non può reiterare le parole, la costruzione del testo abbisogna di sempre nuovi materiali: deve assolutamente dire diversamente. Ecco quindi scatenarsi la ricerca dei registri scomparsi, delle varianti degli strati bassi, delle rimasticazioni allogene, delle pronunce irregolari e finanche blasfeme, in modo da poter ribadire il detto in molteplici cerchi. Quanto più ripete in altro modo, accumulando sinonimi di ogni tipo, tanto più il linguaggio poetico di delli Santi sembra girare all’infinito attorno a un vuoto, a una “mancanza a essere” della lingua: questo “gancio” delle circonvoluzioni verbali mi sembra coincidere con la posizione del potere e con la sua carenza vitale. Il potere come carenza vitale (e perciò assorbimento patologico delle vite altrui) è il centro che la scrittura ha di mira e contro il quale è rivolta la sua rabbia polemica e la sua prassi inversa.
Il plurilinguismo si qualifica allora come operazione prettamente contro-egemonica. La pluralità cessa di avere un valore semplicemente diversivo. Non appartiene più ai ritrovati postmoderni della distrazione (variare per intrattenere l’immaginario, per passare il tempo, per perdere coscienza) e neppure all’etica debolista del “politicamente corretto” (ciò che viene dall’Altro va comunque bene). Il pluralismo indifferente finisce per essere legato ad un perno che resta fuori dalla sua prospettiva (non foss’altro il prezzo di mercato di tutte le possibili varietà). Un pluralismo mirato, invece, (la cui formula diventa, precisamente: essere contro si dice in molti modi) sa in partenza di doversi confrontare con un potere (il capitale linguistico) che limita il concetto utopico di libertà. Dove il “dente duole” la lingua continuamente “batte”.

5. Due sono le mosse polemiche principali che il testo di delli Santi fa proprie. Nella prima ci si esprime da dentro la lingua dell’avversario, la si torce ai propri fini rivelando i suoi difetti nascosti. Nella seconda ci si pone di fronte all’avversario e si usano le parole per aggredirlo. Potremmo riconoscere nella prima la risorsa dell’ironia; nella seconda la calibratura dell’invettiva. Ci sono anche delle forme grammaticali che l’autore predispone a questi scopi: il diminutivo e il vezzeggiativo stanno in una direzione; l’accrescitivo e il peggiorativo nell’altra. Una semplice ricognizione stilistica sulla presenza di queste forme o registri verbali perderebbe di vista il loro senso che sta tutto nell’iscrizione nelle direzioni “generali” che dicevo: attaccare da dentro / attaccare da fuori.
Gli esempi non mancano, davvero ad apertura di pagina. Il diminutivo, appunto, diminuisce l’avversario, trasforma le sue azioni in atti risibili, mette in luce tutti gli aspetti “leccati” (retorici) delle sue enunciazioni. Nel linguaggio è visto l’atteggiarsi e quindi gli è inserito dall’interno un elemento demistificante. E via, allora (cito qui piuttosto casualmente, ma un elenco esaustivo sarebbe lunghissimo) per «tuffetti», per «frasettine», attraverso «attucci dimesticati» e «musichette depilate», verso lo «scandaluccio sornione», le «novelluzze», le «forficette che non tagliano», i «labbrucci», gli «innocui candellierini». L’esibizione delle «vezzose parole smelensite», la loro riproduzione in falsetto, è un gesto eminentemente critico.
Vi si mette in luce l’egemonia della moderazione. Mentre il pensiero è tale solo se va agli estremi, il potere si appoggia sulla moderazione. Potremmo dire che l’ideologia dominante è quella appunto capace di “moderare” e quindi contenere l’antagonismo sociale. Nel diminutivo appare in maniera lampante l’ufficio della moderazione, per la quale ogni aspetto è da convertire nel suo sosia attenuato, così da gestirlo insomma in modo attutito, indolore, perciò contenibile. Mentre la moderazione cala di energia, il lavoro linguistico del diminutivo la fa vibrare di una doppia voce, in quanto ad essa si aggiunge la voce critica che costringe la moderazione a manifestarsi nelle sue stesse parole. Infatti, di per sé, la moderazione non si esprimerebbe neanche, se non con gli scoppi di violenza riservati a chi le sfugge verso l’estremo — come insegna il rogo di Giordano Bruno: niente è più feroce dei moderati.

6. La seconda direzione, quella dell’invettiva, dell’insulto, quindi della messa a distanza, è quella più propriamente polemica. Se si passa attraverso la parola altrui è per uscirne, finalmente, fuori.
Solo da fuori, la parola può caricarsi con maggior forza di “furore” (gli «eroici furori» di Bruno): «Non senti come ogni tua frase / si liquefà con i furori del suo fuoco?». la parola deve uscire dai cardini, essere “fuori di sé”.
L’accrescitivo funziona in questa linea. Esaspera i difetti dell’avversario, ne peggiora il ritratto, rincara la dose fino a rilevanza iperbolica. E via — ancora ad apertura di pagina — con gli «sfarfalloni» e «omaccioni» e «vigliacconi» e «fiumoni» e «befanoni»; oppure, ancora, ecco una serie già pronta di «leggeroni pacchieroni blateroni lasagnoni cialtroni felloni faciloni raggironi massoni pallettoni drittoni cupoloni palloni fricchettoni voltoloni»…
L’aumento deiettivo sottolinea l’impossibilità del dialogo. Non c’è dialogo se uno degli interlocutori è più dell’altro (se c’è potere, insomma): in questo caso la parola deve rovesciare la gerarchia, sommergere il potente, ribaltare in senso contrario la sua attribuzione d’importanza — ripeterla all’opposto in un accrescersi di menomazioni.
Quella dell’invettiva è una retorica fortemente corporale. Ciò s’intende, in primo luogo, nel senso che la parola corporea tira verso il basso: essa accetta, in qualche modo, il sistema di valori dello spiritualismo, per cui il corpo è il basso. Tuttavia, compie al contempo una operazione più sottile. Mostra la corporeità di chi non vorrebbe avere corpo. L’idealista (e dunque ogni altezza mistica e sublime) nega di avere un corpo — ed ha poi, perciò, una corporeità cattiva, proprio perché negata. L’invettiva rimanda verso i corpi; con la sua stessa virulenza rivela — dietro alle pretese dello scambio ovattato — una condizione di rapporto conflittuale. Il vero conflitto è lo scontro dei corpi.
E il “corpo a corpo” esplode fin nelle risorse della tecnica retorica. Il linguaggio si accende, si dinamizza, si muove in tutte le sue parti. Si fa mimica, gesto, atto. Nel nostro idealismo postmoderno, il corpo è qualcosa di troppo banale: si vuole che ci siano soltanto desideri e immagini. Desideri di immagini. Delli Santi, nella sua ricerca sterminata e sterminatrice, insinua invece la corporeità ovunque, smaga le seduzioni, pone punti fermi. Quei punti in cui il potere risponde senza perifrasi. Oggi, magari, senza rogo; solo con il silenzio “informatico”. Eppure, pur sempre, in modo da cancellare gli estremisti.

7. Un’ultima nota. Ricordiamoci che sono però solo parole. Proiettili ridicoli.
C’è un suono autocritico che si fa strada nel detto di Manfurio: «E dimmi dunque, a che è valso per te / cercar parole bisunte, sconce, cimiciose, / maialesche e stomachevoli, / quando si sa che contro codesto / barcone di rape a nulla serve / vomirgli addosso / saette di bile e di disdegno?». La domanda è retorica. La risposta è, ovviamente, nulla. Vomitare parole non serve a nulla. La parola artistica e letteraria è resa inoffensiva, confinata com’è nella “riserva indiana” di una circolazione pressoché clandestina. Eppure continua ad essere una azione, un uso dello spazio verbale. Quanto più le parole diventano “capitali” (forme di capitale: capitale linguistico, consumo linguistico), e più diventano un importante nodo della contesa. Il silenzio di massa è certo un avversario enorme (per certi versi, addirittura peggiore dell’odio fondamentalista che crea vittime; questo le lascia banalmente in vita), tale che non sappiamo come combatterlo senza cadere in una qualche retorica; ma non serve a niente neppure accettarlo come un fatto compiuto. Attraverso crepe e interstizi, c’è un lavoro sul linguaggio che ancora ci riguarda.