il petrarchismo strisciante nel ‘900 italiano

da la forza generativa del barocco
l’eredità estetico-linguistica del Barocco alle Avanguardie
fabio d’ambrosio editore
di Gaetano delli Santi

NB: i riferimenti e i rimandi alle note sono relativi al testo da cui il brano è tratto.

Il petrarchismo strisciante nel ‘900 italiano

A tutt’oggi, quasi tutta la poesia italiana si rifà agli stilemi e alle tematiche della tradizione petrarchesca. Parallelamente, l’antimarinismo, l’antibarocco, e di conseguenza, quasi in maniera ineluttabile, l’antiavanguardia, resistono nella mentalità di molti intelettuali.
Non ci credete?
E allora eccovi un consiglio pratico per constatare di persona se l’affermazione svraespressa, corrisponde al vero o a un giudizio del tutto gratuito:

– prendete una Antologia sulla poesia italiana;
– scegliete un periodo che vada -ad esempio- dal primo ‘900 ad oggi;
– estrapolate a caso (facendo cadere a occhi chiusi il dito sui singoli testi) intere strofe da poesie di diversi autori (se non addirittura da tutti gli autori menzionati nell’Antologia stessa);
– ricomponete le varie strofe in forma di poemetto (sempre seguendo la casualità dell’ordine secondo cui le avrete estrapolate) quasi a comporre un poemetto;
– aggiungete, fra quelle strofe, due o più sonetti appartenenti al ‘500… e
– leggete il tutto (facendo credere che è stato scritto da un solo autore), sottoponendo la lettura a persone a cui non rivelerete il metodo adottato…
– e voilà…

Alla finestra, dove apparve l’angelo,
si sono arrampicati due limoni
che fanno i fiori come il biancospino;
le imposte sono chiuse, per didentro,
e i vetri han nuvolette iridescenti;
ogni nuovo germoglio un po’ nasconde
il rigido quadrato dei pilastri,
muta è la stanza della benedetta:
e chi passa di lì, quando è già notte,
alza gli occhi, e si fa segno di croce. (75)
Apro su un bianco lunedì mattina
la finestra, e la strada indifferente
ruba tra la sua luce e i suoi rumori,
la mia presenza rada tra le imposte.
Questo muovermi … in giorni tutti fuori… (76)
Brilla la finestra del verde lungamente
lungamente composto, sogno a sogno,
orti o prati non so; ma quanta brina
prima ch’io mi convinca, quanta neve. (77)
Quest’ombra che giamai non vide il sole
qualor a mezzo il ciel mira ogni cosa,
da i folti rami d’un mirteto ascosa,
col letto pien di calta e di viole;
dov’un garrulo dio si lagna e duole
con l’onda chiara che non tiene ascosa
l’arena più ch’una purpurea rosa
lucido vetro e trasparente suole,
un povero pastor, ch’altro non have,
ti sacra, o bello dio de la quiete,
dolce riposo de l’inferme menti:
se col tuo sonno e tranquillo e soave
gli chiuderai quest’occhi egri e dolenti
che non veggon mai cose allegre o liete. (78)
Batte a la tua finestra, e dice, il sole:
Lèvati, bella, ch’è tempo d’amare.
Io ti reco i desir de le viole
E gl’inni de le rose al risvegliare.
Batte al tuo cor, ch’è un bel giardino in fiore,
Il mio pensiero, e dice:
Si può entrare? (79)
È lontana nel bianco della stanza
a muovere allo specchio i suoi capelli
una donna che canta.
Sembra silenzio il piccolo portone
che n’aspetta la voce dentro il verde
allegro dei suoi pampini.
Una fanciulla combinata a festa
trova pulito il paesetto e il canto. (80)
Spunta il mattino e l’alba è scolorata,
sul salice novello
il passero dall’ale
si scote indolenzito la brinata,
tace la valle e tacciono gli steli,
fischiano i venti e le recenti gemme
stillan di pioggia al ritornar de’ geli:
e intanto nel cespuglio e nel roveto
un mesto fior si schiude,
si schiude una viola. (81)
Il pioppo nell’azzurro
è un vivo tremolio di grigio e argento;
fa in mezzo ai rami il vento
lento sussurro.
Per la marea dorata
delle messi, olmi e noci hanno sembianza
grave; la lontananza
splende infiammata. (82)
Sotto un cielo schietto e nitido
Di zaffiro vivo,
Nella vampa e nel silenzio
Del meriggio estivo;
Cinto in giro d’olmi taciti
Bolle il campo infervorato,
Folto d’erbe e di selvatici
Fiori tutto screzïato. (83)
È Agosto, è meriggio, alti prati intorno,
io compio tanti anni e tanti, e da lungi
ecco tu mi scrivi con la cara mano, scrivi
che troppo io son giovine e zingara e inquieta,
tu mio bene segreto, tu che mio non sei,
tu alto sovra quanto amai, alto amore,
e da lungi il tuo sorriso di carità dolce
vita e morte ugualmente m’illumina,
colme e preziose
di pianto e gloria. (84)
E s’aprono i fiori notturni
nell’ora che penso a’ miei cari.
Sono apparse in mezzo ai vibumi
le farfalle crepuscolari.
Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse. (85)
Nell’ora mattutina a luna accesa,
appena affiori, geme
l’acqua celeste.
Ad altra foce
piú dolente sostanza
soffiò di vita l’urlo dei gabbiani. (86)
Questi son luoghi solitari e queti,
ove appagando in parte i miei desiri,
posso scovrir quanto de’ miei martiri
altrove aprir giusta cagion mi vieti.
Voi dunque, aprici colli ameni e lieti,
adorni di smeraldi e di zaffir,
e voi, fide compagne a’ miei sospiri,
dolci aure, udite or gli alti miei secreti.
E tu, che dolcemente i fiori e l’erba
con lieve corso mormorando bagni,
tranquillo fiume di vaghezza pieno,
se l cielo al mar sì chiaro t’accompagni,
se punto di pietade in te si serba,
le mie lagrime accogli entro al tuo’ seno. (87)
Oh i bianchi stormi radenti con l’ale il fiore dell’onda!
O flutto azzurro! e tu, vento, che mi ravvolgi e sussurri,
frascheggi sordo nei platani, e incalzi l’onda canuta!
Mare divino fragrante! L’acre salsedine
io bevo
riconoscente, le membra dò al vento, l’anima al mare. (88)
Mamma, questa d’ottobre così gaia
giornata, sembra d’una primavera
ultima. Senti? Rondinelle a schiera
empiono di bisbigli la grondaia. (89)
Io ti dirò verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incurvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte. (90)
Tutto è uguale e compagno all’infinito.
Colmo è il cuore: per nulla rintocca;
eppure, un momento, ho sentito
l’umido bacio della tua bocca. (91)
«Perché piango? Non so.
Io sono in me a giràndola:
basta un soffio. Noi donne è come un estro
che ci prende, di piangere:
piangere, giù, e poi salire altezze
di gioia ch’è vertigine.
Voi non piangete? E ve ne date vanto?
Ma che è poesia se non un pianto
d’iridate parole?
Canta cuore che duole.
Ah, un giorno imparerò
anch’io quest’arte, in cui siete maestro,
di celate tristezze:
piangerò dentro,
e forse ne morrò». (92)
Guardo gli alberi spogli, la campagna
deserta, a tinte invernali. A te penso
che ti allontani, che lasciai da poco.
Mette la sera come un roseo fuoco
sulle casette, sugli armenti; il treno
in fuga volge nella corsa folle
qualche animale giovane e galline
versicolori. (93)
Erano folti intorno gli abeti nell’assalto
dei greppi fino all’alto nevaio disadorno.
I greggi, sparsi a picco, in lenti beli e mugli,
brucavano ai cespugli di menta il latte ricco;
e prossimi e lontani univan sonnolenti
al ritmo dei torrenti un ritmo di
campani. (94)
La bufera è lontana.
Sull’aia allegri cantano i galletti.
Ancora sul selciato i tetti
grondan dell’acqua piovana. (95)
Piove. È mercoledì. Sono a Cesena
ospite della mia sorella sposa,
sposa da sei, da sette mesi
appena. (96)
In me il tuo ricordo è un fruscìo
solo di velocipedi che vanno
quietamente là dove l’altezza
del meriggio discende
al più fiammante vespero
tra cancelli e case
e sospirosi declivi
di finestre riaperte sull’estate.
Solo, di me, distante
dura un lamento di treni,
d’anime che se ne vanno.
E là leggiera te ne vai sul vento,
ti perdi nella sera. (97)
Respira il lago un pàlpito sopito
e dàn le stelle bàttiti di ciglia
divini; appare il mito
dei monti limpido, e origlia. (98)
Ecco, la madre mia buona
entra con passo furtivo
nella mia stanza e mi dona
un ramoscello d’ulivo. (99)
Centanni ha la vecchia.
Nessuno la vide aggirarsi nel giorno.
Sovente la gente la trova a dormire
vicino alle fonti:
nessuno la desta.
Al dolce romore dell’acqua
la vecchia s’addorme,
e resta dormendo nel dolce romore
dei giorni dei giorni dei giorni… (100)
Al giardino spettrale al lauro muto
De le verdi ghirlande
A la terra autunnale
Un ultimo saluto! (101)
Per l’amor dei poeti
Principessa dei sogni segreti
Nell’ali dei vivi pensieri ripeti ripeti
Principessa i tuoi canti:
O tu chiomata di muti canti
Pallido amor degli erranti
Soffoca gli inestinti pianti
Da’ tregua agli amori segreti… (102)
O piccolo cuor mio, tu fosti immenso
come il cuore di Cristo, ora sei morto;
t’accoglie non so più qual triste orto
odorato di mammole e d’incenso.

Uomini, io venni al mondo per amare
e tutti ho amato! Ho pianto tutti i pianti
vostri e ho cantato tutti i vostri canti!
Io fui lo specchio immenso come il mare. (103)
È un mattino di prima primavera.
Un po’ di verde, un po’ di rosa;
un dolce profumo amaro;
un mobile barbaglio
di biancheria che sventola nel sole.
T’attendo nella strada solitaria,
la nostra, fuori porta San Giovanni.
Tra l’intrico dei rami ancora spogli
vedo allungarsi su la via maestra
la nera fila dei seminaristi.. (104)
Foglie, giù foglie nella lenta pioggia
di questa dolce disperata sera!
Foglie, giù foglie: grandi pese fradice
foglie d’ippocastano, e verdi e lievi
e trepide fogliette di robinia;
giù, per l’albore freddo dei lampioni,
giù, sul lucido asfalto della via… (105)
Quando il cielo ritorna sereno
come l’occhio d’una bambina,
la primavera si sveglia. E cammina
per le mormoranti foreste,
sfiorando appena
con la sua veste
color del sole
i bei tappeti di borraccina.
Ogni filo d’erba reca un diadema,
ogni stilla trema. (106)
La canna che dispiuma
mollemente il suo rosso
flabello a primavera;
la rédola nel fosso, su la nera
correntìa sorvolata di libellule; (107)

Così le sagome alate volano, brillano
per un comune lembo
di un comune desiderio
chiomato nell’aria.
A un estremo lembo della tua veste
arrossisco per un tremito
già avvenuto nell’aria.
Tu esisti -sei sola-,
nell’aria e per te questo piccolo riverbero
esiste. Non era l’acquerugiola
che si tramutava in pioggia.
Ti tocco per un tuo lembo
e già tu sei vana. Questa piccola storia d’amore
ancora oggi nei tuoi occhi si legge
e sei presso le ninfe
una piccola dea silvana. (108)
Un giorno di primavera
vidi l’ombra d’un’albatrella
addormentata sulla brughiera
come una timida agnella.
Era lontano il suo cuore
e stava sospeso nel cielo;
nel mezzo del raggiante sole
bruno, dentro un bruno velo. (109)
E ora, in queste mattine
così stanche
che ho smesso di chiedere e di sperare,
e tutto il giardino è per me,
per il mio male sontuosamente,
penso agli amici che mai piú rivedrò,
alle cose care che sono state,
alle amanti rifiutate,
ai miei giorni di sole… (110)
Come allodola ondosa
Nel vento lieto sui giovani prati,
Le braccia ti sanno leggera,
vieni. (111)

Freschezza di una tinta verde
(E tu, porta, che la senti
con la resina dentro in pieno odore).
Primavera della vernice
e potremmo anche avviarci
per un paese di pini
e d’altre aromatiche piante
con un bel mare a maggese
in fondo)… (112)
Era l’alba su i colli, e gli animali
ridavano alla terra i calmi occhi.
Io tornavo alla casa di mia madre.
Il treno dondolava i miei sbadigli
acerbi. E il primo vento era su
l’erbe. (113)
Toccare le tue mani i tuoi capelli
che pure a te qualcuno avrà raccolto
in un piccolo ciuffo sulla testa!
E sentirmi guardato dai tuoi occhi
ostili, poveretta, e tormentarti
domandandoti il nome di tua
madre… (114)
Son passati dei giorni
dei mesi, degli anni.
Tu credi ch’abbia ormai dimenticato
che il mio cuore sia chiuso
al profumo delle nostre sere.
Ma non è vero!
Basta, vedi, che si levi
dal fondo della strada
una canzoncina mesta,
basta, appena, che tremi una foglia
che passi un’ombra
e riconosco il tuo riso
un po’ amaro
e sento il cuore che trema. (115)
Gloria del disteso mezzogiorno
quand’ombra non rendono gli alberi,
e piú e piú si mostrano d’attorno
per troppa luce, le parvenze, falbe.
Il sole, in alto, – e un sécco greto.
Il mio giorno non è dunque passato:
l’ora piú bella è di là dal muretto
che rinchiude in un occaso
scialbato. (116)
Vedo dei salci rossi
nelle campagne brulle;
ci son rosse fanciulle
a lavare nei fossi.
Come han bella la chioma
nell’aria che la brama!
chi la vagheggia ed ama
ogni vezzo le dona. (117)
E nelle vostre calde mani odora
tutta la fuggevole
corona delle nostre passioni, mentre ognuna
porta il dolore della giovinezza.
Rifioriranno i tigli
e le rose serali sopra i muri
per le vie pensierose
lungo i portali calmi e le fontane? (118)
Ancora, quando fa sera, d’ottobre,
e pei viali ai platani la nebbia,
ma leggera, fa velo, come a quei nostri
tempi, fra i muri d’edera e i cipressi
del Camposanto degli Inglesi, i custodi
bruciano sterpi e lauri secchi. (119)
Se torna il sole, se discende la sera,
se la notte ha un sapore di notti future,
se un pomeriggio di pioggia sembra tornare
da tempi troppo amati e mai avuti del tutto,
io non sono più felice, nè di goderne nè di soffrirne:
non sento più, davanti a me, tutta la vita… (120)
Una sera più dolce, di tiepido sole
e di freschi colori, la strada sarebbe una gioia.
È una gioia passare per strada, godendo
un ricordo del corpo, ma tutto diffuso d’intorno.
Nelle foglie dei viali, nel passo indolente di donne,
nelle voci di tutti, c’è un po’ della vita
che i due corpi han scordato ma è pure un miracolo.
E scoprire giù in fondo a una via la collina
tra le case, e guardarla e pensare che insieme
la compagna la guardi, dalla breve finestra. (121)
Dolce sera: e la luna si disfoglia
lenta sulla palude dell’attesa.
Passano i gondolieri, il loro grido
sprofonda, e mai più al mondo tornerà.
Lontanissimo forse il sole splende
su voli in gloria di cicogne, forse
una bionda stagione i ricchi frutti
per te matura, per te
s’inghirlanda. (122)
Al bel tempo di maggio le serate
si fanno lunghe; e all’odore del fieno
che la strada, dal fondo, scalda in pieno
lume di luna, le allegre cantate
dall’osterie lontane, e le risate
dei giovani in amore, ad un sereno
spazio aprono porte e petto. Ameno
mese di maggio! E come alle folate
calde dall’erba risollevi i prati
ilari di chiarore, alle briose
tue arie, sopra i volti illuminati
a nuovo, una speranza di grandiose
notti più umane scalda i delicati
occhi, ed il sangue, alle giovani
spose. (123)
La luna che valica il ciglio
dei tetti, ora inonda
l’interno del portico, imbianca
come funebri maschere le facce
dei poveri che dormono distesi.
Una donna ama in sogno,
abbracciata dall’invisibile
geme e freme di brividi, bacia
fra le sue labbra
un nome. (124)
Freschi giardini di perla
sotto la luna!
Il riposo assorbe d’incanto
i fogliami e le acque in ascolto,
e un dito d’ombra è posato
sulle labbra bambine dei fiori. (125)
Tra le alberete oscilla il carro
che un sole goloso si sgranocchia
e par nel cielo simile
che oscilli e gridi la stagione:
stagione senza età la tua
che ha la mia età senza stagione;
tace la ranocchia accanto alle viole del greto
ed io oso, anima, alfine levare il tuo segreto. (126)
Un giorno amaro l’infinita cerchia
Dei colli
Veste di luce declinante,
E già trabocca sulla pianura
Un autunno di foglie.
Più freddi ora dispiega i suoi vessilli
D’ombra il tramonto,
Un chiaro lume nasce
Dove tu dolce manchi
All’antica abitudine serale. (127)
Cade l’autunno nell’acqua del bacino,
le trote scese nel fondo
imbiancano di malinconia.
Un operaio, solo, in questo primo
risentirsi dell’aria,
al brivido di foglie risvegliate
guarda l’acqua che arruga. (128)
Sbianca il cielo d’autunno. Da tanto aspettavate
voi monti questo freddo: è venuto! Non meno
bello il sole che a tratti vi punge, l’aria nuova
che ora sciama tra gli alberi. Come stella che al giorno
sopravvive, tra questi poggi d’ombre e d’abeti
viene il cuore, più lieta ai versanti vicini
manda la casa un raggio di luce da un’imposta.
Buio intanto raddensa l’inverno e nel più nudo
dei boschi entra. Ma forse, per chi sa di morire
con la sera, è profondo celeste,
anche se nera
lo aspetta la terra, l’ombra della natura. (129)
Ogni anno, mentre scopro che Febbraio
È sensitivo e, per pudore, torbido,
Con minuto fiorire, gialla irrompe
La mimosa. S’inquadra alla finestra
Di quella mia dimora d’una volta,
Di questa dove passo gli anni vecchi. (130)
Marzo è tornato nel nostro giardino.
Ogni anno mia madre mi vuole vicino.
Mi conta i denti, mi cuce i bottoni.
Marzo è alle porte sotto i torrioni.
Siamo arrivati sulla collina
mia madre e il suo bambino.
Ci sediamo sotto gli aquiloni.
Che strano viaggio fa il vento
dalle torri di Urbino alle torri di Benevento,
che raggiri che voli
da Montemurro ai Parioli! (131)
Giardino, selva, mare, ove l’estrema
dolcezza assaporai d’un frutto ignoto
ai vivi. Ancora, a mezzo il giorno vuoto,
stupito il cuore ne sobbalza, e trema. (132)
Ci vogliono voci forti
ugole di ferro, oggi, per dire
una sola sommessa parola d’amore. (133)

Da codesto gioco birbone e trasgressivo, che cosa abbiamo notato?
1) pare che non siano affatto trascorsi dei secoli: la poesia novecentesca italiana si ripropone identica a quella cinquecentesca;
2) per quanto i versi siano stati estrapolati da diverse poesie di diversi autori, essi paiono scritti da uno solo degli autori citati (l’uno vale l’altro);
3) la tecnica compositiva, adottata per ogni poesia dai vari autori, è più o meno la medesima;
4) in ognuno dei componimenti poetici vi traspaiono, ossessivamente e pedantescamente, i seguenti temi: l’idilliaco, il sentimentale, il bucolico, l’arcade, il pastorale, ecc. Insomma, tutti temi cari alla tradizione classicistica e petrarchista.
Che cosa è cambiato, dunque, dal ‘500 ad oggi, nella poesia italiana?

L’esempio sovraindicato, ci autorizza legittimamente a dire: la letteratura egemone italiana, è sempre stata fondamentalmente restia a ogni forma di innovazione. Impigliata a una stinta tradizione di stampo accademico, le è sempre stato culturalmente impossibile affrontare nuove strade che la portassero a sperimentare genuinamente -a passo coi tempi- linguaggi e stilemi che si esprimessero coerentemente col dinamismo e la vitalità dei cambiamenti sociali.
L’ondata avanguardistica del Futurismo, nonostante la messa in pratica delle sue teorie ebbe proseliti tra molti intellettuali europei, passò quasi del tutta inosservata in Italia. Fra le ragioni per cui l’avanguardia fu in gran parte ripudiata, non v’è soltanto la radicalizzazione del passatismo brandito con orgoglio dalla cultura dominante, che si rifiutava di lasciarsi incendiare da scintille dotate d’innovazione, ma anche il fatto che «la nostra cultura letteraria, per non aver vissuto in profondità la stagione simbolista, era impreparata ad accogliere la lezione esplosiva del Futurismo, la quale, (…) fruttificò altrove e catalizzò in certo modo tutto lo spirito d’avanguardia in Europa». (118)

Il rifiuto sistematico di ogni forma innovativa, teneva gli intellettuali di quel periodo imprigionati in forme espressive tradizionali, per le quali non si sentiva neppure lontanamente la necessità di mettere e mettersi in discussione, aprendosi concettualmente a un laboratorio sperimentale e innovativo. Tant’è che «Intorno agli anni Venti si assiste da noi ad una duplice restaurazione letteraria: da una parte la Ronda col suo radicalismo classicistico; dall’altra il Novecentismo di Bontempelli col suo moderatismo avanguardista. Quel che seguì poi, ed è storia nota, cioè l’ermetismo e il neorealismo, non fece che ricacciar ancor più in profondità i fermenti futuristi». (119)

Eppure l’avanguardia aveva dinamicamente fatto irruzione in tali forme d’accademismo intrise di concetti classicistici, desueti e stridenti nei riguardi della modernità e dentro cui si barrica gran parte dei letterati.
Sperimentalismo e innovazione nelle arti visive contro il tradizionalismo nella letteratura
Tutto ciò corrisponde a una storia trita e ritrita già in passato vissuta: che cosa accadde infatti nel ‘500? Da una parte abbiamo le arti visive che tutto osarono, finanche trasgredire ogni norma che li riconducessero a stilemi già abbondantemente sfruttati dalla tradizione classicistica, dall’altra parte abbiamo letterati che si vantano di essere rigorosamente e pedissequamente i continuatori del petrarchismo e dei canoni classicistici.
Se l’artista cinquecentesco sperimenta differenti tecniche tanto da rinnovare continuamente il proprio stile nel corso della sua esistenza, il letterato si stringe passivamente a tecniche e linguaggi conformi alle regole del conservatorismo e del convenzionalismo, tanto da imitare non solo la tradizione ma anche se stesso dopo aver imitato la tradizione.

Quanti letterati e intellettuali italiani, passati alla storia, furono in grado di intuire l’originalità, la modernità e l’attualità riposte in norme estetiche (che a nostro avviso sono fin troppo ovvie) quali «la poesia nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie: e però tanti son geni e specie di vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti» ?(Bruno)

«…in ogni componimento conviene tante volte variarlo quanto sono le cose che lo compongono. E sì come nelle azioni tragiche talvolta la scena si muta in boschereccia per esprimere qualche particella o dell’antica satira o della moderna pastorale, così dove in un discorso occorre materia propria d’altro genere che di quello che il preso suggetto comprende, per esprimerla decentemente conviene mutar forma di dire». (119)

Quanta letteratura innovativa dell’Ottocento e novecento europeo pare che abbia fatta la norma di Daniello Bartoli (contrariamente a quella italiana): «in ogni componimento conviene tante volte variarlo quanto diverse sono le cose che lo compongono»? (120) Ci pare che molti intellettuali europei la riconoscano.

In Italia invece non avviene niente di tutto questo. La lezione del Barocco e delle Avanguardie non viene assolutamente presa in considerazione, nonostante nel primo Novecento l’Avanguardia avesse avviato, come aveva fatto il barocco, una radicale innovazione estetica e linguistica nel campo dell’arte. Ma quanto di questa innovazione ha veramente intaccato la barricata della cittadella delle lettere italiane?
Nel ‘900 riscontriamo le stesse dinamiche che nel ‘500. Le arti visive con il Futurismo si rinnovano. Soltanto pochi letterati dalla mentalià aperta a 360 gradi aderiscono al programma innovativo dell’ Avanguardia. Dando uno sguardo alla letteratura egemone dal primo novecento ad oggi, tutto ciò appare in maniera palese.

Dall’antichità ad oggi, tantissime opere letterarie potrebbero essere annoverate in qualità di opere spiccatamente barocche. Senza andare troppo indietro col tempo, si pensi anche soltanto a tanti autori moderni, figli dell’Altra Europa.
Mi limito perciò a citarti – tralasciando tutti gli autori d’Avanguardia, dalle storiche alle contemporanee, e tutti quegli autori che son stati, senz’ombra di dubbio, precursori delle stesse appartenenti a epoche diverse – solo i seguenti con le loro rispettive opere in cui la lezione del Barocco emerge in maniera fin troppo esplicita:
José Lezama Lima (Paradiso);
James Joyce (Ulisse…
Ezra Poud (Cantos);
Andrej Belyj (Il colombo d’argento, Pietroburgo);
William Faulkner (L’urlo e il furore);
Macedonio Fernández (Museo del romanzo della Eterna)
Samuel Beckett (tutto ciò che ha scritto, ma in particolar modo Molloy, L’innominabile , Watt);
Thomas Mann (Doctor Faustus);
Paul Valéry (Monsieur Teste);
Virginia Woolf (Le onde);
Franz Kafka (diversi racconti, in particolar modo Descrizione di una battaglia);
Fernando Pessoa (Faust, Il libro dell’inquietudine);
Gottfried Benn (Cervelli);
Stanislaw I. Witkiewicz (Insaziabilità);
Robert Musil (L’uomo senza qualità);
Maurice Blanchot (L’attesa e l’oblio);
Witold Gombrowicz (Il Matrimonio);
Marcel Proust (Alla ricerca del tempo perduto).

Ognuno di questi autori, ha violato totalmente le norme estetiche classicistiche: sia la poesia sia il romanzo diventano campo aperto in cui il linguaggio si rinnova e si rigenera a contatto con una struttura in cui, per dirla con Boccioni la «simultaneità d’ambiente, e quindi dislocazione e smembramento degli oggetti, sparpagliamento e fusione dei dettagli, liberati dalla logica comune e indipendenti gli uni dagli altri», (121) e, per dirla con Bartoli «lo sminuzzamento de’ periodi trinciati in piccolissimi concisi, effetto moltitudine di tante coserelle minute, ciascuna delle quali finisce il senso e muta pensiero». (122)
Tali opere, in quanto opere rivoluzionarie, costituiscono «un sovvertimento del modo di sentire e di concepire, un atto di accusa contro la realtà costituita, l’apparire di un’immagine di liberazione».(123)
La critica sociale di Salvatore de Rosa
Per quanto riguarda la scrittura intesa come critica al dato di fatto, abbiamo nel Barocco anche autori satirici che ci hanno lasciato testi significativi. Fra questi spicca il pittore napoletano Salvatore de Rosa (1615-1673), che politicamente s’impegnerà ne la Compagnia della morte «che era di pittori», allo scoppio della rivoluzione di Masaniello. Ci racconta Luigi Settembrini: «Questi giovani di giorno davano la caccia agli Spagnuoli, e scovandoli senza pietà li trucidavano, e la notte a lume di torchi ritraevano le sembianze di Masaniello, e ne fecero molti ritratti.»
Della poesia di Salvatore de Rosa -di cui dò un esempio- Settembrini dirà: «(…) ma che cosa dovrebb’essere l’arte, massime la poesia? Un sacerdozio popolare, una protesta, una voce che dica il vero senza paura…» (124).
Salvatore de Rosa vedi il componimento in versi a pag. xxxx (H)
La denuncia sociale in alcuni manifesti programmatici delle Avanguardie storiche.
Questa spietata denuncia sociale la ritroviamo nell’Avanguardia ancor più acuíta ed affilata.
Tutti i manifesti che qui si citano, sono a pag. xxxxxxxxxxx (I)
I Manifesti (Aprite le prigioni-Sciogliete l’esercito-Non ci sono reati di diritto comune, Lettera ai rettori delle Università europee, Al Papa, Lettera ai primari dei manicomi, Dichiarazione del 27 gennaio 1925 del Surrealismo; L’emancipazione della donna in Democrazia futurista di Marinetti; Nota sulla poesia di Tristan Tzara), costituiscono solo alcuni esempi di scrittura impegnata (tratti dal copiosissimo apparato teorico delle Avangurdie storiche), in cui la denuncia sociale e il rapporto Arte-Vita risultano essere elementi fondamentali per l’operato artistico avanguardistico, senza i quali l’arte sarebbe oziosa e superflua. È secondo questi intenti programmatici che Tristan Tzara e Paul Éluard affermeranno:
l’arte «che almeno sia un mostro capace di spaventare gli spiriti servili, e non la decorazione sdolcinata dei refettorî degli animali travestiti da uomini, illustrazioni della squallida favola dell’umanità.» (125)
«Ma il dramma dov’è, se non fra i poeti che dicono «noi», fra coloro che lottano, che si confondono con i loro simili, anche e soprattutto se sono amanti, coraggiosi. La poesia è un combattimento.» (126)
Già! la poesia d’Avanguardia è un combattimento, ne è un esempio eccellente la poesia di Éluard: Le sette poesie d’amore in guerra.
Vedi Le sette poesie d’amore in guerra di Paul Éluard a pag … (L)
A partire da questo momento, per comprendere quanto sia importante che l’arte diventi gesto sociale e non trastullo per un mero piacere estetico, proviamo ad immaginare il vostro corpo straziato dalle scellerate brutture della guerra. Provate a toccare (con l’immaginazione… per quanto sia ahimé! infinitamente distante dalla realtà) le carni carbonizzate, carni ridotte in lacerti dall’isterica mannaia di dementi e dissennati criminali, carni deturpate dagli effetti di radiazioni nucleari (pien di escrescenze, di ustioni, di scorticature, di ulcere rigorganti di pus, di carne livida e sbranata che ribolle come bistecca su carboni ardenti).
Immaginatevi sbudellati: il vostro corpo più non sorride alla vita, esso giace (già seviziato da mostri uomini) fatto a pezzi in una fossa in cui tanti altri corpi son stati, insieme ai vostri, gettati a lacerti di carne affettata. Ora siete allettante pasto per avidi vermi, mentre i fautori della vostra infame carneficina esultano orgogliosi per la riuscita guerra.
E ora, di fronte a tutto questo strazio, figuriamoci il poeta tipo dell’Io. Che fa codesto poeta? Tace! Risucchiato dal proprio Io, né si arrischia a scendere in strada a sostenere una lotta per i diritti dell’uomo, né si degna -con le sue parole- di incriminare la politica devastatrice del capitalismo che vi ha massacrati.
La scrittura sociale e impegnata contro l’immobilismo asociale della tradizione letteraria.
Sì, egli fa come il neoromantico poeta Rainer Maria Rilke: se ne fotte di ciò che accade al mondo al resto dell’umanità, impiega il proprio tempo a estasiarsi ispirato, componendo (alla faccia vostra) una carina canzoncina-ina-ina:

Oh dimmi, Poeta, cosa fai?
lo canto.
Ma ciò che è mortifero, il mostruoso,
come lo sopporti, come lo accogli?
Io canto.
Ma ciò che non ha nome, è anonimo,
come puoi, Poeta, chiamarlo?
lo canto.
Donde il tuo diritto, in ogni costume,
in ogni maschera, di essere vero?
lo canto.
Come possono conoscerti la quiete
e il furore, la stella e la tempesta?
Io canto.

Ma noi… lungi dal qualunquismo orfico e dal menefreghismo neoromantico (di cui, in particolar modo, quasi tutto il novecento italiano è intriso -e non solo il novecento- …sì, abbiamo avuto anche nel passato poeti daddovero ispirati!), ci rendiamo conto che l’urlo utopico dell’Avanguardia (sia pure vano come ogni utopia che si rispetti), è ciò che più ci accomuna umanamente all’urlo straziato di chi cade stramazzato sotto le psicopatiche sferzate dell’egemonia capitalistica e della cultura dominante.
Noi siamo con André Breton, perché della Guerra ci dà tormentosamente una allegoria atroce quanto un coacervo di uomini straziati a causa d’essa.

Noi siamo con Benjamin Péret, perché della Guerra ci dà ironicamente il suo vero ritratto: grottesco quanto il muso di un àngiolo da fogna, sfigurato dalla maligna scriteriataggine dei suoi criminali.

Noi siamo con Joyce Mansour, quando Grida:
«Grida
Non mangiate i bambini degli altri/La loro carne imputridirebbe nelle vostre bocche ben fornite./Non mangiate i fiori rossi dell’estate/La loro linfa è il sangue dei bambini crocifissi./Non mangiate il pane nero dei poveri/È fecondato dalle loro acide lacrime/E si radicherebbe nei vostri corpi allungati./Non mangiate affinché i vostri corpi avvizziscano e muoiano/Creando sulla terra in lutto/L’Autunno.» (127)

Noi siamo con Louis Aragon, e con lui utopicamente affermiamo:
«È un’assurdità mettere in rima
Ciò che ciascuno sa silenziosamente
Ma servirà a mettere le ali ai loro crimini.» (128)

N O T E :

75 Enrico Pea 1881-1958, Alla finestra, da Fole Pescara, Industrie Grafiche, 1910.

76 Pier Paolo Pasolini 1922-1975, Apro su un bianco… da Roma 1950 diario , All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1960.

77 Pier Paolo Pasolini, Per la finestra nuova, da IX Ecloghe, Mondadori, Milano 1962,

78 Bernardo Tasso 1493-1569.

79 Giosue Carducci 1835-1907, Mattinata, da Rime nuove, Zanichelli, Bologna 1944.

80 Alfonso Gatto 1909-1976, Domenica, da Nuove poesie , Mondadori, Milano 1950.

81 Iginio Ugo Tarchetti 1841-1869, Spunta il mattino…, da Disjecta, Zanichelli, Bologna 1879.

82 Giovanni Camerana 1845-1905, Il pioppo nell’azzurro, da Versi, Streglio, Torino 1907.

83 Arturo Graf 1848-1913, La danza dello scheletro, da Poesie, Chiantore, Torino 1922.

84 Sibilla Aleramo 1875-1960, Tanti anni e tanti, da Poesie, Mondadori, Milano 1929.

85 Giovanni Pascoli 1885-1912, Il gelsomino notturno, dai Canti di Castelvecchio in Poesie, Mondadori, Milano 1948.

86 Salvatore Quasimodo 1901-1968, Sardegna, da Erato e Apollion, Scheiwiller, Milano 1936.

87 Bernardo Cappello 1498-1565.

88 Enrico Thovez 1869-1925, Mare di shelley, da Il poema dell’adolescenza, Treves, Milano 1924.

89 Giovanni Cena 1870-1917, Mamma, questa d’ottobre cosi gaia…, da Madre, Streglio, Torino 1897.

90 Gabriele D’annunzio 1863-1938, La sera fiesolana, da Alcyone in Laudi, Mondadori, Milano 1956.

91 Giovanni Papini 1881-1956, Prima poesia, da Opera prima, La Voce, Firenze 1917.

92 Francesco Pastonchi 1887-1953, L’arte, da Versetti, Mondadori, Milano 1931.

93 Umberto Saba 1883-1957, In treno, da Ultime cose, Collana di Lugano, Lugano 1944.

94 Guido Gozzano 1883-1916, da La via del rifugio, Streglio, Torino 1907.

95 Corrado Govoni 1884-1965, Dopo il temporale, da Poesie elettriche, Edizioni futuriste di «Poesia», Milano 1911.

96 Marino Moretti 1885-1979, A Cesena, da Poesie di tutti i giorni in Poesie scritto col lapis, Mondadori, Milano 1949.

97 Vittorio Sereni 1913-1983, In me il tuo ricordo, da Poesie, Vallecchi, Firenze 1942.

98 Clemente Rebora 1885-1957, L’ora intima, da Frammenti lirici, La Voce, Firenze 1913.

99 Marino Moretti, Domenica delle palme, da Poesie scritte col lapis, Edizione definitiva, Mondadori, Milano 1949.

100 Aldo Palazzeschi 1855-1974, La vecchia del sonno, da Opere giovanili, Mondadori, Milano 1958.

101 Dino Campana 1885-1932, Giardino autunnale (Firenze), da Canti Orfici ed altre Liriche, Vallecchi, Firenze 1928.

102 Dino Campana, La speranza sul torrente notturno, da Canti Orfici ed altre Liriche, Vallecchi, Firenze 1928.

103 Sergio Corazzini 1887-1907, Rime del cuore morto, da Liriche, Ricciardi, Napoli 1909.

104 Diego Valeri 1887-1976, Prima primavera, da Umana (1915) in Poesie Vecchie e Nuove, Mondadori, Milano 1930.

105 Diego Valeri, Foglie, giù foglie, da Umana (1915) in Poesie Vecchie e Nuove, Mondadori, Milano 1930.

106 Ugo Betti 1892-1953, La primavera, da Il re pensieroso, Treves, Milano 1922.

107 Eugenio Montale 1896-1981, La canna che dispiuma, da Le occasioni, Einaudi, Torino 1939.

108 Lorenzo Calogero 1910-1991, da Opere poetiche, Lerici, Torino 1962.

109 Carlo Betocchi 1899-1986, Dell’ombra, da Realtà vince il sogno, Vallecchi, Firenze 1943.

110 Vincenzo Cardarelli 1887-1959, Estiva, da Poesie, Mondadori, Milano 1942.

111 Giuseppe Ungaretti 1888-1970, Dove la luce, da Sentimento del tempo, Mondadori, Milano 1943.

112 Luciano Folgore 1888-1966, Porta verniciata di fresco, da Città veloce, La Voce, Roma 1919.

113 Sandro Penna 1906-1977, L’alba sui colli …, da Poesie, Garzanti, Roma 1957.

114 Camillo Sbarbaro 1888-1967, Magra dagli occhi lustri…, da Pianissimo, La Voce, Firenze 1914.

115 Filippo De Pisis 1896-1953, Il tempo, da Poesie, Vallecchi, Firenze 1953.

116 Eugenio Montale, Gloria del disteso mezzogiorno, da Ossi di seppia, Gobetti, Torino 1925.

117 Carlo Betocchi, Salici fanciulle, da Cuore di primavera, Rebellato, Padova 1959.

118 Mario Luzi 1914-2005, Giovinette, passi, da Avvento notturno, Vallecchi, Firenze 1940.

119 Francesco Fortini 1917-1994, Camposanto degli inglesi, da Poesia ed errore, Feltrinelli, Milano 1959.

120 Pier Paolo Pasolini, Al principe, da La religione del mio tempo, Garzanti, Milano 1961.

121 Cesare Pavese 1908 –1950, Dopo, da Lavorare stanca, Solaria, Firenze 1936.

122 Maria Luisa Spaziani 1925, Giudecca, da Le acque del Sabato, Mondadori, Milano 1954.

123 Giorgio Caproni 1912-1990, Maggio, da Finzioni, Istituto Grafico Tiberino, Roma 1941.

124 Giorgio Vigolo 1894-1983, Portico dei dormenti, da Canto del destino, Neri Pozza, Venezia 1959.

125 Arturo Onofri 1885-1928, Luna, da Arioso, Bragaglia, Roma 1921.

126 Piero Bigongiari 1914, Il canto di un passero, da Le mura di Pistoia, Mondadori, Milano 1958.

127 Attilio Bertolucci 1911-2000, Al fratello, da La capanna indiana, Sansoni, Firenze 195I.

128 Roberto Roversi 1923, Il fischio del treno, da Dopo Campiformio, Feltrinelli, Milano 1962.