Sappiamo che non c’è niente di gratuito e che, insomma, non c’è niente fuori dal mercato. Ma dovrebbe essere altrettanto ovvio che il mercato che c’è non è l’unico possibile. I guasti e le malformazioni dell’attuale assetto — e in particolare per quanto riguarda i prodotti di cui mi occupo, come “minimo” studioso e operatore, cioè quelli culturali e librari — sono sotto gli occhi di tutti e sono stati già abbondantemente sottolineati, ma vorrei tornare rapidamente su alcuni aspetti che mi sembrano particolarmente gravi:
1) La concentrazione del potere della comunicazione e la sua sovrapposizione al potere di governo (fattore che speriamo transitorio, ma che costituisce, per il momento, un ulteriore sovraccarico d’incubo); è un punto da programma politico.
2) La ciclicità sempre più raccorciata della produzione, la cui durata è ormai di pochi mesi, decreta in brevissimo tempo il fallimento e la restituzione del libro che non venda sùbito, impedendo qualsiasi sperimentazione di una diffusione più in profondità. Dettata, a quanto sembra, dal costo dello “stivaggio”, la legge della breve permanenza in libreria annulla qualsiasi autentica e seria concorrenza tra i prodotti, favorendo quelli di più immediata fruizione e quindi i più “facili” e ossequenti al senso comune, provocando sempre di più l’appiattimento del libro su temi e personaggi già consacrati dal medium televisivo.
3) L’accantonamento di qualsiasi politica culturale di formazione del pubblico, in nome della rapida vendibilità, induce a presupporre il destinatario secondo i parametri più certi, che sono quelli di più basso livello. Si finisce così inevitabilmente in un circolo vizioso: se si ha necessità di smerciare il più presto possibile un prodotto librario, converrà scegliere, per essere sicuri, un prodotto un po’ più basso del livello presunto nel gusto del pubblico; in questo modo, il gusto del pubblico, che deve poi per forza consumare i prodotti che trova, scenderà di livello; al giro successivo (il funzionamento su base ciclica stagionale ha, appunto, i suoi “turni”) si dovrà supporre un livello ancora più basso. A questa discesa nello scadimento non c’è fine, come infatti vediamo; non si toccherà mai alcun fondo.
4) L’informazione (poiché siamo nella società dell’informazione, l’avevate dimenticato?) si distribuisce in modo totalmente asimmetrico a favore dei nomi già noti. Permettetemi l’aneddoto: durante i pochi secondi di una episodica apparizione televisiva (per carità, notturna), pretendevo di nominare tre poeti; _Ma nessuno li conosce!, implorò il conduttore; obiettai che così nessuno li avrebbe mai conosciuti (e così fu).
Riassumerei il tutto nella formula del predominio del consumo sulla produzione. In uno dei suoi saggi, Guido Guglielmi (purtroppo recentemente scomparso) aveva ripreso uno dei più famosi titoli di Walter Benjamin, L’autore come produttore, per trasformarlo tendenziosamente ne L’autore come consumatore. In questo passaggio dalla prospettiva della “produzione” (su cui concordava anche Brecht, il quale, dal canto suo, vedeva come “produttiva” addirittura la passione degli amanti) alla centralità del “consumo”, con tutto quanto comporta in termini di priorità del piacere più evanescente, inseguimento dei gusti consolidati e dittatura della fruibilità immediata, sta la gran parte del problema odierno e delle difficoltà non solo dell’arte, ma della cultura e forse — non vorrei esagerare, max — della politica e della civiltà in genere. Quando si porta alle estreme conseguenze, come oggi sembra avvenire, la centralità del “consumo”, si giunge in breve alla sostituzione della cultura con l’intrattenimento e alla conseguente emarginazione di qualsiasi “linguaggio difficile”. Si muova anche un solo passo in una grande libreria: reietti in qualche angolo e seminascosti se ne stanno non solo i generi “aristocratici”, come la poesia, ma anche i generi “didattici” della saggistica e della critica letteraria, proprio quelli che dovrebbero contribuire ad alzare il livello della fruizione e ad appianare spiegandola l’eventuale difficoltà. Attenzione: anche la produzione editoriale di testi per l’università, che fino a ieri vantava un proprio lettore “obbligato” negli studenti costretti alla preparazione degli esami, sta subendo pesanti condizionamenti e quasi una mutazione genetica: infatti, poiché la riforma degli ordinamenti ha introdotto, al posto dei corsi, unità più piccole e con minor numero di frequentanti, dette moduli, ecco allora che i libri di testo — avendo bisogno di essere adottati in più moduli — dovranno farsi di più in più semplificati, introduttivi, generici ed ecumenici, attenti a non privilegiare una posizione particolare sulle altre. In altre parole: neutri e neutrali. Anche qui livellamento e conformismo (gli editori corrono a dotarsi di “manuali”, ognuno uguale agli altri: questa è la concorrenzax). Del resto, che possa essere la scuola il luogo di rifugio delle “scritture complesse” e dell’arte della parola è speranza legittima, che si scontra però con la crisi e il disincentivamento della scuola pubblica stessa.
Contrapporvi un circolo virtuoso, che tenti ogni volta un livello di qualcosa più alto dei gusti presupposti nel pubblico, per poter poi crearsi un pubblico sempre più disposto a salire di qualità, sembra cosa giusta, ma è — inutile dirlo —petizione morale che trova completamente sordi gli attuali canali di pubblicazione. Ma che cos’altro rimane da fare? Non siamo forse schiacciati da un avversario immenso che ci censura nel modo più indolore per lui, cioè sottraendoci addirittura l’attestato di esistenza e quindi non riconoscendoci nemmeno come nemici? Naturalmente non ho risposte a questi tremendi interrogativi. Vorrei però ricordare che a ciascuno di noi resta, per quanto piccolo, un margine d’intervento, negli spazi residuali che ognuno ha. Questa minima chance va giocata — io credo — non tanto per reiterare, con commiserazione e autocompianto, il gesto di un grande passato tragicamente disdetto dal barbaro presente, quanto piuttosto cercando vie possibili di contatto, di comunicazione e di aggregazione. Mi limito a segnalare alcune minime ipotesi, ispirate a recenti esperienze:
1) Il passaggio attraverso la rete internet, che facilita lo scambio delle notizie e dei materiali e veicola, in questo momento, nuovi linguaggi e una nuova scrittura multimediale. La stessa forma-rivista, che nel secolo passato ha caratterizzato il dibattito della società letteraria, è ormai trasmigrata nella rete (lì ha trovato “asilo politico”).
2) Il ritorno all’oralità, non solo per i casi di sperimentata “poesia sonora”. Credo che tutta la poesia (almeno quella di maggiore “ricerca”) stia compiendo un viaggio verso la recitazione. Che non è semplicemente un ritorno all’origine, ma contiene la spinta all’apertura verso altri generi artistici (come la musica) e un forte potenziale dinamico nella convergenza verso il teatro.
3) L’utilizzo della piccola editoria, magari in forme consociate, per superare la barriera dell’invisibilità e dare indicazioni sulla “vetrina che non c’è”.
Tre, ma anche di più. Nelle cattive condizioni in cui siamo, non possiamo far altro che moltiplicare (col massimo di fantasia) le strade da percorrere, le risorse da inventare, le occasioni da cogliere; sperando che dal numero si intraveda la prospettiva possibile. Naturalmente, i passi che possono risultare in ciascuna di queste direzioni sono piccoli (sono davvero “strategie lillipuziane”), almeno in assenza di aiuto dal settore pubblico. Certo, ci dovrebbe essere una politica di “riequilibrio” nel mercato culturale, nonché un rafforzamento e una apertura della scuola. Forse, non ci sarebbe neanche bisogno di “bonus”: basterebbe defiscalizzare, scalare i libri dalle tasse. Ma errato sarebbe affidarsi alla politica (che, in senso stretto, si riduce ormai — essa pure — alla miope gestione del giorno-per-giorno). Sappiamo che, ormai, anche la politica bisognerebbe ricominciarla da capo, a partire dal “basso”. Una “rete dal basso”, una red web. A ben vedere, i due aspetti (la produzione della cultura, la produzione di agire collettivo) sono un solo, enorme problema. Quello che mi induce a continuare nella attività della ricerca è l’alto grado di insoddisfazione e di insofferenza per l’esistente, che sento salire intorno.