di fausta squatriti
Nel ciclo di lavoro ” La commedia Umana” ho scelto il solo volto umano a raffigurare l’umanità come straordinario messaggero ed esemplificatore della mia indagine relativa ai diversi significati attribuibili all’immagine avente ‘riconoscibilità’ nel reale.
Sul volto dell’uomo chiunque lo guarda non avrà dubbi, vi riconoscerà la sua stessa ‘commedia umana’, attribuendo a quella fisionomia un ‘valore’ certo, affidato alla riconosciblità.
Questo accade in generale con ogni immagine mimetica,mentre quando l’immagine non si riferisce al reale mimeticamente, il suo valore viene definito come ‘astratto’, discosto dalla realtà, appartenente ad un altro ‘ceto’.
Nel lavoro che da una decina d’anni svolgo attraverso la forma linguistica di dittico e trittico,metto in scena immagini fotografiche per lo più da me realizzate, solo raramente attinte da documenti trovati nei libri, di elementi figurali cui attribuisco un valore narrante forzato dalle mie intenzioni,espresso in cicli tematici diversi, quali,” I ferri del mestiere”, “Nel Regno Animale”, “Nel Regno vegetale”, “Sed libera nos a malo”, “Legami di sangue”, “La via Crucis”, “La commedia umana”.
Il messaggio di ogni ciclo narrativo attiene sempre, per il momento, alla tematica del dolore, della violenza, dell’ingiustizia, del paradosso, dell’eterna diatriba tra male e bene, tema quest’ultimo anche del mio più recente libro di poesia.
Avevo scelto di non usare il volto umano, decapitando i corpi, quando li ho usati, essendo la testa e il volto dell’uomo la parte del corpo che metaforicamente lo esprime nella sua spiritualità, volevo dunque lasciare la denuncia dei misfatti, ma anche del dolore estremo del genere umano, senza volto, per renderli, misfatti e dolore, ancora più dilaganti in quanto anonimi.
I soggetti fotografici sono stati: strumenti di tortura, fiori,rami spinosi, rocce, animali,escrementi,panneggi,sangue,carni, fegato, rognone, cervello, macchine in disuso, stracci, parti di corpo separati dal corpo stesso.
Immagini osservate nella realtà, spesso la più insignificante se non la più repellente, quella dalla quale distogliamo lo sguardo per non esserne offesi nella nostra aspirazione al bello,che io elevo al ruolo di’ oggetto’ per farci meditare, nobilitandolo.
Fotografo i miei reperti non da artista della fotografia, ma da dilettante, evitando ogni maestria interpretativa esibita attraverso il mezzo fotografico, conscia del fatto che desidero compiere un semplice prelievo istologico dall’ampio contesto del mondo oggettivamente esistente.
Fotografo con una Olimpus automatica, a colori,cercando nella fotografia il documento, il più anonimo possibile, e constato che non esiste immagine che non abbia valore di immagine e che come tale non sia capace di produrre dapprima emozioni,subito dopo associazioni di idee.
Dunque l’opera d’arte si forma attraverso la manipolazione critica dell’immagine che le permette di trascendere il suo stesso significato primario.
E questa è la prima parte del lavoro che senza la seconda parte non assumerebbe significato valido.
La meditazione attorno al vedere come rivelazione del pensiero astratto , si rifornisce di significati chiarificatori nel mio consueto mondo di segni geometrici,da anni esperimentato nella progettazione di opere plastiche tridimensionali,in modo particolarmente consapevole negli anni tra il’65 e l’87.
In questo modo, per unire due esperienze visive, percettive nonché estetiche diversissime tra loro, antitetiche si direbbe,ho adottato la forma del dittico e del trittico, che mi permette di fare coesistere,sia pure separandole, aiutata dalle rigide ripartizioni dei supporti,fotografia e geometria.
Il segno geometrico, dal valore simbolico sempre e persino suo malgrado, ci spiega la parte fotografica che da sola non avrebbe alcun valore al di là del documento.
Il controcanto è affidato ad immagini nate in partenza come astratte,e non come astrattizzazione del reale, e vogliono esprimere di volta in volta aggressività, condanna, persecuzione, rottura, inganno, senza fare ricorso all’ambiguità della mimesi.
‘
In questa ricerca di binomio forzato ho constatato che la ‘realtà’ è solo una interpretazione, materializzata,dell’esistente, ma anche questo può essere negato.
Ogni immagine che inevitabilmente succede al reale in carne ed ossa,diventa virtuale ed astratta, capace di suggerire una chiave di lettura soltanto critica , dunque soggettiva.
Ci si aggrappa al concetto stabile di realtà solo per non perdere ogni sia pur minima sicurezza.
Oppure posso dire: la realtà non esiste se non nel nostro immaginario.
Oppure posso dire: vediamo solo quello che già conosciamo.
Oppure posso dire: la realtà materializza l’astrattezza dei nostri desideri.
Nell’uso che faccio delle immagini fotografiche di soggetti dedotti dal mondo circostante avente peso, forma, concretezza materiale, avulse dal proprio contesto, faccio loro assumere significato opposto a quello più ovviamente posseduto, quello che è attraente diventa repellente e viceversa.
Il significato che voglio così provocare è quello dell’estrema fragilità del concetto di realtà associato a quello di verità mentre l’ambiguità rimane al centro della mia attenzione, ambiguità e rovesciamento deliberato del significato, del valore.
L’evento narrativo procede per associazioni incongrue, mette in scena uno scandalo stilistico per parlare del dolore, dell’ingiustizia, del male.
Voglio provocare una reazione di fronte al contrasto tra la bellezza formale e l’utilizzo forzato delle figure, sia realistiche che astratte, per costringere a meditare sul paradosso, sul non senso, sullo stato di eterna guerra che caratterizza uomini e forze della natura.
Questa lettura forzata dell’immagine dedotta dal reale è possibile grazie alla forte determinazione del segno geometrico che si fa simbolo, di volta in volta diverso,ed è lui che scatena il valore dell’immagine fotografica.
.Paradossalmente potrei anche dire che il solo realismo possibile è la geometria che non ha modelli nel reale, dunque ogni volta che si fa un segno geometrico esso è in se stesso, non è la raffigurazione di un altro segno che gli fa da modello, non è mai mimetico, contrariamente alle immagini in cui si riconosce una traccia del mondo conosciuto.
Il passaggio dei significati e dei valori si complica visivamente, per semplificarsi concettualmente, con il volume che completa ogni lavoro, e ciò accade secondo questa procedura logica: il segno geometrico sviluppa una certa quantità di superficie da me studiata affinché possa essere utilizzata per realizzare le pareti di un solido, generalmente un cubo, ma recentemente anche volumi più complessi, che posti di fronte all’opera pittorica sviluppata sul piano, ad essa si legano indissolubilmente, carne della stessa carne.
Il volto umano che sto studiando in questo periodo, è il massimo dell’espressività per quanto riguarda la condizione umana, e proprio per questo il massimo dell’ambiguità.
Non c’è volto umano che non esprima l’abisso dell’esitenza e la sua contraddizione.
Chiedo alle persone che fotografo di fare una faccia che esprima il loro valore in quanto esseri umani.
Di fronte alla mia piccola macchina fotografica le persone da me così provocate, finiscono per rivelarsi in modo straordinario,esibendo, attraverso il volto, la propria immagine più segreta, in una fusione tra realtà intellettuale e realtà spirituale.
Volti spaventati, lacrime a fior di pelle, saggezza ancestrale, premonizione del nulla che ci attende dopo la morte,follia, ma anche sfrenata quanto
irragionevole gioia di vivere.
marzo 2.000
LA COMMEDIA UMANA
Squatriti stava già compiendo una ricerca sul volto umano, cercato tra coloro che esprimono ‘conoscenza’.
Tale idea le è stata suggerita dall’incontro, folgorante, con un mendicante, a Milano, nel cui sguardo l’artista ha potuto vedere : uno sguardo che va oltre la vita e oltre la morte, lo sguardo che va ‘ al dilà’ della conoscenza e dell’immaginabile.
In seguito ha cercato altri volti, trovandoli tra gli intellettuali, gli artisti, i poeti che le sono amici, ed è nata la prima “Commedia Umana”.
Fermo restando il suo consueto mettere in relazione foto di parti dell’esistente riconoscibile con figure astratte e geometriche, in questo caso è il volto a suggerirle la figura geometrica, emblematica, che raffigura la psiche del personaggio, trattato sempre come il prelievo istologico di un frammento di realtà, reso duraturo dalla fotografia ed esemplare dalla sua stigmatizzazione attraverso il proprio alter-ego geometrico.
Ogni volto si porta addosso un ‘voglia’, l’ombra o la macchia della propria coscienza, a volte azzurra, altre verde, grigia, oppure rosa o tragicamente avvampata di rosso.
Volto umano e geometria sono insieme travolti, avvolti o incriminati dal volteggiare o dal cadere del drappo di velluto quando non di raso rosso, o viola, sipario e fasto della rappresentazione della Commedia Umana.
Come in tutte le installazioni di Squatriti, insieme all’opera di superficie vive un volume costruito in ferro, solitamente un cubo, che utilizza, per potere essere costruito, la superficie che è stata utilizzata nella figura geometrica piana che si vede così trasformata, diventata carne viva, figura tridimensionale, in una ossessionata ricerca di equità, del rendere sempre a cesare quel che è di cesare, sebbene le ingannevoli apparenze.
La Commedia Umana in Israele verrà rappresentata in due atti.
I molti volti incontrati e trattati dall’artista, che ha così voluto rendere omaggio al popolo che vive in Israele da lei incontrato fino ad ora, vivranno
l’uno accanto all’altro, nello spazio appositamente riallestito della galleria, protagonisti della Commedia, tragici, ironici, misteriosi, potenti, malinconici, giovani e vecchi, ognuno con la propria ‘conoscenza’ da mettere sulla scena confusa della convivenza.
I cubi appartenenti ai singoli personaggi saranno mescolati tra loro, ammucchiati al centro dello spazio, uno addosso all’altro, come fossero le rovine di una costruzione altrimenti realizzata attentamente, ma che necessita di costante ripristino, riordino, ricostruzione.